samedi 30 novembre 2024

Nota su un’opera : Cesare Beccaria

Su Cesare Beccaria e l’illuminismo

Quando ti esprimi in una lingua che conosci poco, è preferibile parlare di un argomento per il quale hai un vivo interesse. Ciò aiuta a fornire lo sforzo necessario per far fluire i propri pensieri in parole scarsamente controllate. Ecco perché, mentre sono impegnato a riflettere sullo spirito dell'Illuminismo del 18° secolo, ho deciso di evocare Cesare Beccaria, un autore italiano di questo periodo che, spero di convincervi, ha avuto un profondo impatto sul progresso successivo legati ai diritti dei cittadini dei paesi democratici.

Due parole innanzitutto sul mio interesse per l’Illuminismo. Viviamo in tempi preoccupanti sotto molti aspetti. Personalmente, una delle mie maggiori preoccupazioni è l’impero sempre crescente di pensieri e modi di pensare irrazionali. Siamo arrivati ​​a credere a tutto e al suo contrario, dalle teorie più inverosimili e prive di prove alle utopie politiche più inette, compresi i rimedi pseudomedici più folli. L’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti lo conferma. Questo declino della razionalità ha accompagnato una revisione dell’orizzonte precedente della nostra cultura e in particolare dell’Illuminismo. Per quasi 100 anni, filosofi e storici riconosciuti hanno difeso l’idea che gli eccessi totalitari del 20° secolo – comunismo, fascismo e nazismo – devono qualcosa ai filosofi del 18° secolo. La ragione veniva designata come fonte dell'errore e la verità considerata trascurabile di fronte alle esigenze dell'azione. Penso ad autori come Max Horkheimer, Theodor Adorno, Martin Heidegger, Gilles Deleuze, Michel Foucault, Jacques Derrida. Sono fortemente in disaccordo con questo modo di vedere. Se questi dibattiti vi interessano e se avete tempo, vi invito a leggere le due note sull'argomento che ho inserito nel mio blog. (1) Se lo fate, non ditemi che non è divertente : lo so. Non dirò altro a riguardo oggi.

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Veniamo a Cesare Beccaria. Chi è costui ? Cosa ha detto ? Perché ci interessa ? Cosa permette di dire che, tra gli illuministi del 18° secolo, occupa un posto molto importante ?

Mettiamolo al suo posto ! Vediamo di chi si tratta. Nacque a Milano nel 1738 dal marchese Giovanni Saverio e da Maria Visconti di Saliceto. Egli Lui stesso portava il titolo di marchese di Gualdrasco e Villareggio, due piccoli feudi situati tra Milano e Pavia. Suo padre discendeva da un ramo di illustre famiglia pavese, che aveva ottenuto il titolo marchionale nel 1712. Dal 1747, secondo le sue stesse parole, subì « otto anni di educazione fanatica e servile » in una scuola gesuita per giovani aristocratici a Parma. Nel 1758, all'età di 20 anni, conseguì il dottorato in legge presso l'Università di Pavia.

Per comprendere appieno cosa lo portò a pubblicare l'opera che lo avrebbe reso famoso - Dei delitti e delle pene (2) - nel 1764, è secondo me essenziale guardare a due eventi molto diversi tra loro : da un lato, un episodio politico molto importante nel Ducato di Milano ; dall'altro, un episodio molto personale, una storia d'amore inaspettata con conseguenze di vasta portata. Questi eventi si svolsero in un breve arco di tempo, essenzialmente dal 1760 al 1764. (3)

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Partiamo dall'evento politico. Durante il Medioevo, la Lombardia era indipendente, prima sotto i Visconti, poi sotto gli Sforza. In seguito, le guerre d'Italia la portarono sotto il controllo della Francia e poi della Spagna. Dal 1714, in seguito alla guerra di successione spagnola, passò sotto il dominio degli Asburgo d'Austria.

Beccaria aveva 2 anni quando il titolo di duchessa di Milano passò a Maria Teresa d’Austria. Maria Teresa non era una persona qualunque. Se la storia offre molti ritratti di donne che hanno superato il giogo maschile per affermare il proprio punto di vista, lei occupa certamente uno dei primi posti in questa galleria. Ciò non le impedì di alimentare i pregiudizi del suo tempo, in particolare quelli cattolicissimi contro ebrei e protestanti, che aveva espulso. Si trovò anche coinvolta nella Guerra dei Sette Anni, il primo grande conflitto mondiale, che si concluse con la vittoria di Gran Bretagna e Prussia e la sconfitta di Francia e Austria. Ma ciò che ci interessa è il gusto che dimostrò - soprattutto sotto l'influenza del suo cancelliere, il principe Kaunitz - per le nuove idee, partecipando così a quello che Mme de Stael chiamava dispotismo illuminato.

Tuttavia, a partire dal 1760, fu la Lombardia a diventare il luogo di profonde riforme istituzionali, ispirate in parte dalla filosofia dell’Illuminismo. Un nuovo ministro plenipotenziario, il conte Carlo Giuseppe di Firmian, originario di Trento, giunse a Milano nel 1759, mentre il veneziano Luigi Giusti ricoprì la carica di referente e segretario del Dipartimento d'Italia. Furono soprattutto questi due rappresentanti austriaci a pianificare le grandi riforme. Ma chi si oppose a queste riforme ? Gli aristocratici milanesi che volevano conservare i loro privilegi, in particolare i padri di coloro che, per reazione, avrebbero formato il circolo degli illuministi italiani, la cosiddetta Accademia dei Pugni. Tornerò più avanti su questa Accademia dei Pugni.

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Ma ora vediamo cosa ne fu del giovane Cesare. Vedete ! Dovete sapere che si innamorò perdutamente della bella Teresa Blasco, che all’epoca aveva 16 anni. Era figlia di un siciliano di origine spagnola, colonnello dell'esercito imperiale asburgico, ma che non aveva alcun titolo nobiliare. II padre di Cesare reagì opponendosi alle nozze del figlio con la ragazza, mettendo a repentaglio la posizione della famiglia nell'aristocrazia milanese. Il conflitto sfociò in una rottura che spinse il figlio a sfidare tutti gli impegni filosofici, religiosi, politici e finanziari del padre.

Innanzitutto, sposò Teresa e presto ebbe una figlia che chiamò Giulia, senza dubbio in riferimento all'eroina di La Nouvelle Heloïse di Jean-Jacques Rousseau, che aveva appena letto. (Una breve parentesi : Giulia sposò il conte Pietro Manzoni e nel 1785 diede alla luce un figlio, nientemeno che il romanziere Alessandro Manzoni, autore dei Promessi sposi, di cui ho parlato qui l’anno scorso.)

Cesare Beccaria iniziò quindi a leggere gli scrittori francesi del secolo, a partire da Montesquieu, ma anche Helvétius, Voltaire, Rousseau, Diderot, D'Alembert e altri. Inoltre, entrò in contatto con giovani della sua età, anch'essi attratti dall'Illuminismo francese. Tra questi, Pietro Verri ebbe un ruolo fondamentale nella creazione di un gruppo di amici che pubblicò una rivista chiamata “Il Caffè” e che divenne noto come “Accademia dei pugni”, pugni perché avevano la reputazione di discutere in modo molto aspro. Pietro Verri, come Beccaria, ruppe con il padre, il conte Gabriele Verri, che era uno dei più virulenti difensori dei privilegi tradizionali dell'aristocrazia milanese. Pietro coinvolse nella sua ribellione i fratelli Alessandro, Carlo e Giovanni (un’altra parentesi : quest'ultimo, Giovanni, noto soprattutto come libertino, era il padre biologico di Alessandro Manzoni).

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Questa è una breve descrizione del contesto che portò Cesare Beccaria a riflettere sugli abusi subiti dai popoli. E lui, laureato in legge, ha riflettuto in particolare sulle condizioni in cui la legge gioca un ruolo in questi abusi. La sua materia : diritto penale.

Cosa troviamo nel libro di Beccaria, Dei delitti e delle pene ? Mi limiterò alle due idee che mi sembrano più importanti, senza cercare di essere completo. Chiunque voglia saperne di più potrà trarre beneficio dalla lettura del libro.

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La prima idea, e forse quella che lo ha reso più famoso, è stata l'abolizione della pena di morte. Quando i giornali commemorarono l'abolizione nel 1981 della pena di morte in Francia, più di una volta titolarono: da Beccaria a Badinter. Dopotutto, Beccaria è considerato il primo ad aver chiesto l'abolizione della pena di morte, utilizzando argomenti umanistici.

Beccaria riteneva che il sovrano - sovrano era la parola usata all'epoca per designare il potere, qualunque fosse la sua forma - avesse solo quella parte di libertà che ogni cittadino gli cedeva per il bene di tutti, e che la libertà del cittadino fosse quindi quasi totale, ad eccezione di quella che veniva così concessa al sovrano (un'idea ispirata dal filosofo inglese John Locke). Però, ciò che viene ceduto al sovrano deve essere utile per il bene di tutti, cosa che non avviene quando, ad esempio, si ricorre alla crudeltà - si riferisce qui alle torture e ai maltrattamenti comunemente praticati su imputati e colpevoli. Ecco un breve estratto per sentirlo parlare :
« A misura che i supplicii [‘supplicii’ in italiano del 18° significa ‘tormenti'] diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello colli oggetti che gli circondano, s'incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent'anni di crudeli suppliciii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico. » (4)
Questo ragionamento è ovviamente un po' semplicistico. Senza dubbio deve molto all'uso di crudeltà estreme da parte delle autorità dell'epoca, che vi ricorrevano costantemente e senza particolare discernimento. Ciò che è importante ricordare è la preoccupazione di rendere la pena proporzionata al reato, e quindi di porre fine all'arbitrarietà che molto spesso prevale anche quando si pretende di fare giustizia.

È questo spirito che porta Beccaria a porsi ulteriori domande. Lo leggo ancora :
« Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili ? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno ; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo ? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i ben, la vita ? » (5)
È quindi lo stesso ragionamento che lo porta a proporre l'abolizione della pena di morte. Naturalmente, nel suo libro sviluppa molti altri argomenti. Mi sono permesso di insistere su questo perché illustra perfettamente la preoccupazione di concordare pene calibrate sulla gravità e sulla dannosità dei reati, preoccupazione che ritroveremo nella seconda idea che propongo di discutere.

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Questa seconda idea che ho mantenuto è secondo me la più interessante. Perché ? Di che si tratta ?

Si tratta della concezione di Cesare Beccaria sull'applicazione della legge da parte del giudice, in altre parole su come la legge dovrebbe essere interpretata quando si tratta di sentenze. Lasciate che vi legga un paragrafo notevole :
« In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto : la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza. » (6)
Cesare Beccaria voleva che il giudice si astenesse dall'interpretare la norma. Se lo fa, apre la possibilità di trattare in modo diverso persone che hanno commesso lo stesso reato. E, aggiunge, se la norma deve essere semplificata in qualche modo per facilitare la decisione, non sarà un compito molto complicato. In effetti, questa proposta, che in ultima analisi è abbastanza logica per coloro che vedono costantemente sentenze emesse in modo arbitrario, soprattutto in base alla qualità del contendente, darà luogo a discussioni giuridiche che continueranno ad appassionare gli operatori del settore fino ad oggi. Perché si tratta di un dilemma molto controverso : giudicare secondo la lettera della legge o secondo lo spirito che ne ha guidato l’adozione ? Oggi è in corso un vivace dibattito tra i sostenitori del cosiddetto principio di proporzionalità - un principio di cui i giudici delle corti superiori amano parlare - e gli oppositori di questo tipo di interpretazione, che si trovano generalmente tra i giudici delle corti inferiori. I primi si arrogano il diritto di non applicare una norma, come una legge, perché non è proporzionata a un principio superiore, che ovviamente richiede poteri interpretativi molto ampi. I secondi sottolineano l'incertezza giuridica che questa latitudine creerebbe ; alcuni arrivano cosi a denunciare un governo di giudici.

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Non ho deciso di parlare di Cesare Beccaria per trascinarvi in questo tipo di polemica, e tanto meno per schierarmi. Volevo solo presentarvi un autore italiano del 18° secolo, rappresentante di quello che è stato definito l'Illuminismo, cioè di coloro che hanno cercato di usare la ragione per distinguere il più possibile la verità dalla falsità.

Ci piace pensare che usare la ragione sia qualcosa di facile, che permetta di avere ragione. Ma è vero il contrario. Perché la ragione non ha contenuto. Al massimo, è un modo di usare la mente per evitare false catene di cause ed effetti, per valutare ciò che è plausibile, per ordinare le ipotesi. E questo è tutt'altro che facile.

Perché parliamo del 18° secolo come il secolo della ragione, come il secolo dell’Illuminismo ? Cosa è successo in quel secolo per fargli meritare questo nome ? La ricerca della verità, in qualsiasi campo, richiede un metodo. Il 17° secolo - con Bacone, Cartesio e Galileo - ha visto l'emergere della scienza moderna, quella che è stata conosciuta come razionalismo quantitativo. È stata applicata alla comprensione della natura, naturalmente, ma ha anche influenzato ricerche per le quali la matematica era di scarso aiuto. In filosofia, per esempio, fu necessario guardare le cose in modo diverso, anche se la scienza suggerisce di essere il più vigili possibile contro gli errori. Il 17° secolo è stato il secolo dei grandi sistemi deduttivi : Hobbes, Cartesio, Malbranche, Spinoza, Leibniz. Il 18° sarà il secolo del metodo induttivo : partire dai dettagli e generalizzare dove possibile. Tutti diventarono cauti prima di affermare qualcosa, perché si scoprì quante possibilità c'erano di sbagliare. Nel campo delle opinioni, in particolare di quelle filosofiche o politiche, la ragione può essere usata per filtrare le buone e rifiutare le cattive. Mi concentrerò su un solo esempio per farvi capire di cosa sto parlando.

Prendo l'esempio di uno storico italiano contemporaneo, un grande storico: Carlo Ginzburg, l'iniziatore di una grande tendenza della ricerca storica chiamata microstoria. È il figlio della grande scrittrice italiana Natalia Ginzburg.

Nel 1998, Carlo Ginzburg ha pubblicato un libro intitolato Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (7). Gli occhi grandi di legno sono gli occhi di Pinocchio, quello che non riesce a vedersi senza dirsi che non è chi pensa di essere. In questo libro, troviamo una nuova parola che egli ha in un certo senso inventato, almeno nel senso che le dà : è la parola « straniamento » (8). Significa distanza, ma non una distanza qualsiasi. In realtà, Ginzburg traduce una parola francese molto antica che si trova in Montaigne : l’« estrangement ». Di cosa si tratta ?

« Ces exemples estrangers ne sont pas estranges » (9) [« Questi esempi stranieri non sono strani »] scrive Montaigne dopo aver elencato alcune stranezze esotiche. Ciò che ci sembra strano è solo ciò che è diverso dalle nostre abitudini e dai nostri costumi. È sforzandoci di vedere le nostre abitudini e i nostri costumi come strani che ci renderemo conto che questi usi e costumi stranieri non sono affatto strani. Dobbiamo diventare estranei a noi stessi per capire che gli altri, per quanto lontani, non sono così strani come potremmo inizialmente pensare. L'« estrangement », lo « straniamento », è il processo attraverso il quale la percezione viene sottratta all'automatismo dell'abitudine. La percezione non è solo l'apprensione dei fatti, ma comprende anche i giudizi a cui questi fatti sono abitualmente soggetti. Relativizzare questi giudizi fino a renderli strani è il modo per ripristinare l'integrità dei fatti, il modo per defamiliarizzare con ciò che normalmente consideriamo accettabile. È così che Montaigne, parlando dei cannibali incontrati su una banchina francese, giunge a scrivere : « Nous les pouvons donc bien appeller barbares, eu esgard aux regles de la raison, mais non pas eu esgard à nous, qui les surpassons en toute sorte de barbarie » (10) [« Possiamo ben chiamarli barbari, se consideriamo le regole della ragione, ma non se consideriamo noi stessi, che li superiamo in ogni genere di barbarie »].

Per Montaigne, l’« estrangement » è innanzitutto un tentativo di denunciare l'arbitrarietà del potere dominante, un tentativo di rendere giustizia a coloro che non hanno diritto di parola (animali, donne, cannibali) e che quindi non possono opporsi ai giudizi che legittimano il potere con i propri giudizi. È soprattutto un modo per lasciarsi andare, per concentrare le nostre facoltà critiche su noi stessi, per cercare le fonti della nostra cecità in noi stessi prima di cercarle negli altri.

È quello che fece Cesare Beccaria quando rifiutò i privilegi di cui avrebbe potuto beneficiare. È anche quello che hanno fatto i filosofi dell'Illuminismo quando hanno lottato duramente contro i pregiudizi inscritti nelle loro menti, nella speranza di raggiungere verità che non fossero più quelle di qui o di là, ma verità universali, anche in termini di valori. L'universalismo - oggi tanto criticato, soprattutto quando viene confuso con la globalizzazione - è spesso mal definito. Non è l'opposto del relativismo. Non è l'idea che la realtà costituisca un tutto. È uno sforzo per guardare le cose senza pregiudizi e, soprattutto, senza lasciarsi guidare da dogmi, credenze, ideologie, dottrine e opinioni di cui la nostra storia personale ci ha riempito il cervello. A livello etico, cerca valori che siano applicabili nella loro concezione all'intera umanità.

Per questo motivo - ma sto dando un'opinione personale che capisco possa non essere condivisa - penso che il primo nemico dell'indipendenza della mente sia la militanza. Il militante non può praticare lo “straniamento”, l’« estrangement ». Non può liberarsi dei paraocchi perché sono ciò per cui vuole lottare. Né può impedirsi di considerare strane le opinioni dei suoi avversari, perché li sta combattendo. Il militante, qualunque sia la causa che sta servendo, rifiuta implicitamente di fare un passo indietro e di mettere alla prova le proprie convinzioni. Il militante è una calamità per l'umanità.

(1) Ecco gli indirizzi da seguire : https://jeanjadin.blogspot.com/2024/10/note-dopinion-les-lumieres-12.html e https://jeanjadin.blogspot.com/2024/11/note-dopinion-les-lumieres-22.html.
(2) Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018.
(3) Per saperne di più sulla vita di Cesare Beccaria e sul clima politico in cui si esprimeva, si veda Philippe Audegean e Gianni Francioni, ‘Des délits et des peines’ de Cesare Beccaria, ENS Éditions, Lyon, 2009.
(4) Cesare Beccaria, Op. cit., p. 89.
(5) Ibid., p. 90-91.
(7) Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, 1998 (in francese : Carlo Ginzburg, À distance. Neuf essais sur le point de vue en histoire, trad. di Pierre Antoine Fabre, Gallimard, 2001).
(8) Per un'analisi dettagliata di questo concetto, si veda l’articolo di Silvia Giocanti, “L’art sceptique de l’estrangement dans les Essais de Montaigne », in la rivista Essais, Hors-série 1, 2013, 19-35.
(9) Montaigne, Les Essais, Gallimard, Bibliothèque de La Pléiade, 2007, p. 111. Per un'analisi pertinente delle parole di Montaigne, si veda la conferenza di Bernard Sève dal titolo L'étrange et l'étranger dans la pensée de Montaigne presentata il 28 marzo 2017 al ‘Rendez-vous philosophiques Orléans-Tours’ e visibile al seguente indirizzo internet : https://youtube.com/watch?v=w4cyRZY5iT0.
(10) Montaigne, Op. cit., p. 216.

mardi 5 novembre 2024

Note d’opinion : les Lumières - 2/2 -

À propos des Lumières

SECONDE DE DEUX NOTES


Deuxième moment

Lorsque Martin Heidegger parle de « l’être de l’étant », l’être ainsi évoqué n’est pas l’étant lui-même, bien sûr, mais quelque chose qui est spécifique à l’homme pensant, à savoir cette faculté de se percevoir étant. Et l’effort qui mérite d’être fourni en vue de saisir cette spécificité dans sa véritable signification, voilà à quoi devrait se vouer la philosophie.

Peut-on condenser de la sorte, en deux petites phrases, l’œuvre philosophique de Heidegger ? Pourquoi pas ! Bien sûr, le risque est grand de provoquer l’indignation de ceux-là qui l’admirent et croient en ce dévoilement promis de l’être. Je pense personnellement qu’on peut s’arrêter là, dès lors que l’on regarde ce projet comme une mystification, c’est-à-dire comme une « ouverture » à des mystères. Quitte à passer pour un rustre incapable de pénétrer une méditation phénoménologique (1), je me plais à opposer l’humanisme de Heidegger - si tant est qu’il y en ait un - à celui de Claude Lévi-Strauss. Voici pourquoi.

L’humanisme de Heidegger - inexistant sous cette appellation -, c’est cette idée que l’étant de l’homme se distingue radicalement de tout autre étant, puisqu’il est le seul qui, grâce au langage, ait un possible accès à la vérité, c’est-à-dire à l’être. Le reste du vivant comme du non-vivant est aveugle à l’être, ce qui le déclasse irrémédiablement. Et du même coup, cela voue la science à rester confinée dans le calcul et l’expectative et à ne pas penser. Il est difficile d’imaginer une conception de l’homme davantage dictée par l’amour-propre.

L’humanisme de Lévi-Strauss - qu’on a quelquefois qualifié d’anti-humanisme, parce qu’il incluait bien davantage que les humains - a précisément réagi contre ce que le mot impliquait d’amour-propre. Je ne résiste pas à l’envie de lui laisser préciser sa pensée :
« En ce siècle où l’homme s’acharne à détruire d’innombrables formes vivantes, après tant de sociétés dont la richesse et la diversité constituaient de temps immémorial le plus clair de son patrimoine, jamais, sans doute, il n’a été plus nécessaire de dire, comme font les mythes, qu’un humanisme bien ordonné ne commence pas par soi-même, mais place le monde avant la vie, la vie avant l’homme, le respect des autres êtres avant l’amour-propre ; et que même un séjour d’un ou deux millions d’années sur cette terre, puisque de toute façon il connaîtra un terme, ne saurait servir d’excuse à une espèce quelconque, fût-ce la nôtre, pour se l’approprier comme une chose et s’y conduire sans pudeur ni discrétion. » (2)

De la même manière, je me plais également à opposer l’exploration du langage à laquelle se livre Heidegger à celle que nous devons à Ludwig Wittgenstein. Le premier rapporte les mots allemands et grecs à leur étymologie, jusqu’à prétendre y découvrir la vérité du sens, comme si les mots, dévoyés par l’usage, recelaient l’authentique vérité de l’être, allant ainsi du plus “clair” au plus “obscur”. Le second, conscient des pièges que les mots contiennent dès lors qu’ils sont utilisés dans des jeux de langage qui en infléchissent le sens, décrit un espace des formes logiques qui tente d’aller du plus obscur au plus clair. Pour le dire très abruptement, le premier subordonne la raison à sa propre compréhension des choses, là où le second soumet autant que possible sa compréhension des choses à la raison.

Ce n’est évidemment pas les seules oppositions utiles à relever dès lors que l’on cherche à caractériser l’espace occupé par la pensée heideggérienne. Celle qui devint en quelque sorte légendaire, c’est celle qui se donna à voir à Davos, au printemps 1929, alors que Martin Heidegger et Ernst Cassirer débattirent à l’aube des terribles années 30 de ce qu’il fallait retenir de Kant. Sur le moment, la réaction la plus commune fut d’y voir une victoire décisive d’Heidegger (3). De nos jours, pratiquement un siècle après, certains n’hésitent plus à renverser cette opinion en insistant sur la force de l’analyse développée alors par Cassirer (4). Bien évidemment, les volte-face sur le sujet se sont multipliées au fur et à mesure qu’étaient révélées la force et l’obstination des opinions nazies et antisémites d’Heidegger, notamment dès 2014, après la publication des Schwarze Hefte (5). Pourtant, ce qui personnellement m’a conduit à me détourner d’Heidegger n’est aucunement lié à ses dérives politiques, même si la question du rapport de sa pensée avec le politique mérite d’être posée.

En novembre 1975, Pierre Bourdieu a publié un article consacré à ce qu’il appela “L’ontologie politique de Martin Heidegger”. Un seul extrait - choisi entre cent autres - donnera une idée de la forme de critique assénée :
« Tout est ainsi fait pour interdire comme indécente toute tentative pour exercer sur le texte la violence, dont Heidegger lui-même reconnaît la légitimité lorsqu’il l’applique à Kant, et qui seule permet de “saisir au-delà des mots ce que ces mots veulent dire”. Il n’y a rien ici, au-delà des mots propres, et toute exposition de la pensée originaire qui se refuse d’entrer dans le jeu du jargon et de reproduire le langage sublimé, proprement intraduisible dans aucun autre idiolecte philosophique, est condamnée d’avance aux yeux des gardiens du dépôt. La seule manière de dire ce que veulent dire des mots qui ne disent jamais naïvement ce qu’ils veulent dire ou, ce qui revient au même, qui le disent toujours mais seulement de manière non-naïve, consiste à réduire l’irréductible, à traduire l’intraduisible, à dire ce qu’ils veulent dire dans la forme naïve qu’ils ont précisément pour fonction première de nier. L’“authenticité” ne désigne pas naïvement la propriété exclusive d’une “élite” socialement désignée, elle indique une possibilité universelle - comme l’“inauthenticité” - mais qui n’appartient réellement qu’à ceux qui parviennent à se l’approprier en l’appréhendant comme telle et en s’ouvrant du même coup la possibilité de “s’arracher” à l’“inauthenticité”, sorte de péché originel, ainsi converti, par la conversion de quelques-uns, en faute responsable d’elle-même. C’est ce que dit en toute clarté Jünger : “Avoir son destin propre, ou se laisser traiter comme un numéro : tel est le dilemme que chacun, certes, doit résoudre de nos jours, mais est seul à pouvoir trancher (…). Nous voulons parler de l’homme libre, tel qu’il sort des mains de Dieu. Il n’est pas l’exception, ni ne représente une élite. Loin de là : car il se cache en tout homme et les différences n’existent que dans la mesure où chaque individu sait actualiser cette liberté qu’il a reçue en don” (*1). Égaux en liberté, les hommes sont inégaux dans la capacité d’user authentiquement de leur liberté et seule une “élite” peut s’approprier les possibilités universellement offertes d’accéder à la liberté de l’ “élite”. » (6)

L’a priori politique qui transparaît dans cet extrait est exemplaire de bien d’autres. En 1988, Bourdieu a publié un livre qui reprend, sous le même titre, l’article de 1975. (7) Le débat sur les opinions nazies d’Heidegger venait de s’enflammer. (8) et Bourdieu souhaitait que cet article ne soit pas mal compris. Dans l’“avertissement au lecteur”, il précise :
« […] contrairement à l’idée que l’on se fait souvent de la sociologie, c’est la lecture de l’œuvre elle-même, de ses doubles sens et de ses sous-entendus, qui a révélé, à une époque où tout cela n’était pas connu des historiens, certaines des implications politiques les plus inattendues de la philosophie heideggérienne : la condamnation de l’État providence, enfouie au cœur de la théorie de la temporalité ; l’antisémitisme, sublimé en condamnation de l’errance ; le refus de renier l’engagement nazi, inscrit dans les allusions tortueuses du dialogue avec Jünger ; l’ultra-révolutionnarisme conservateur, qui inspire tant les stratégies philosophiques de dépassement radical que la rupture avec le régime hitlérien, directement suscitée, comme l’a montré Hugo Ott, par la déception de ne pas voir reconnue l’aspiration révolutionnaire du philosophe à la mission de Führer philosophique. » (9)

Il ajouta :
« Tout cela, qui pouvait se lire dans les textes, a été refusé par les gardiens de l’orthodoxie de la lecture qui, menacés dans leur différence par le progrès de sciences qui leur échappent, s’accrochent, tels des aristocrates déchus, à une philosophie de la philosophie dont Heidegger leur a fourni une expression exemplaire en instaurant une frontière sacrée entre l’ontologie et l’anthropologie. Mais ils ne font ainsi que différer le moment où ils devront finir par s’interroger sur l’aveuglement spécifique des professionnels de la lucidité, dont Heidegger, une fois encore, a livré la manifestation la plus achevée et que leur refus de savoir et leurs silences hautains répètent et ratifient. » (10)
Et là, on peut craindre qu’il se soit montré très optimiste en imaginant que tous les initiés à la mystagogie heideggérienne réformeraient leur point de vue.

Ainsi, dupe ou porté par un élan anagogique, Alain Finkielkraut se plaît souvent à évoquer Heidegger. Lors de l’émission Répliques du 26 octobre 2024 consacrée à “La folie mathématique” (11), il ne résista pas à cette démangeaison, mentionnant le discours que ce dernier prononça en 1955 à Messkirch lors de fêtes commémoratives en l'honneur du compositeur Conradin Kreutzer. Rappelant la distinction entre la pensée calculante et la pensée méditante que Heidegger y opère, il tenta d’opposer à la science la légitimité d’une pensée philosophiquement prééminente, ce qui laissa ses interlocuteurs - Étienne Klein et Olivier Rey - parfaitement impavides. Le discours de Messkirch, publié sous le titre Sérénité mérite l’attention, ne serait-ce que pour ceci qui prolonge l’éloge de la pensée méditante :
« Or c’est cette seconde pensée que nous avons en vue lorsque nous disons que l’homme est en fuite devant la pensée. Malheureusement, objectera-t-on, la pure méditation ne s’aperçoit pas qu’elle flotte au-dessus de la réalité, qu’elle n’a plus de contact avec le sol. Elle ne sert à rien dans l’expédition des affaires courantes. Elle n’aide en rien aux réalisations d’ordre pratique.
Et l’on ajoute, pour terminer, que la pure et simple méditation, que la pensée lente et patiente est trop “haute” pour l’entendement ordinaire. De cette excuse il n’y a qu’une chose à retenir, c’est qu’une pensée méditante est, aussi peu que la pensée calculante, un phénomène spontané. La pensée qui médite exige parfois un grand effort et requiert toujours un long entraînement. Elle réclame des soins encore plus délicats que tout autre authentique métier. Elle doit aussi, comme le paysan, savoir attendre que le grain germe et que l’épi mûrisse.
 » (12)
Il y a là - selon moi - l’aveu d’un abandon mûri de la rationalité, dans la mesure où le produit de la méditation ainsi vantée n’est fondé que sur la hauteur et la complexité de la démarche visant à l’atteindre. Et il y a aussi, bien sûr, le lien établi adroitement avec le paysan, assurément le moins réputé méditant de tous, mais le plus symboliquement fondateur de l’identité dont Heidegger se réclame.

Lorsque je parle d’abandon mûri de la rationalité, je veux dire que le terrain de réflexion choisi ne permet pas d’espérer des aboutissements rationnellement confirmables, même si le cours de la pensée méditante en cause peut évidemment s’appuyer sur des arguments rationnels. C’est la caractéristique de toute mystique de suggérer une croyance sans support raisonné, mais d’être néanmoins défendue quelquefois par des arguments rationnels. Ai-je besoin de préciser que la raison mise en pareil cas au service d’une conviction irrationnelle corrompt l’entendement bien davantage qu’elle ne l’éclaire ?

La Lettre sur l’humanisme de Heidegger (13) - que j’ai choisie pour indiquer un moment dans le discrédit jeté sur les Lumières - est de 1946. C’est-à-dire juste après la Deuxième Guerre mondiale, précisément lorsque Heidegger va se taire sur son engagement nazi et lorsque Jean Beaufret lui demandera fort naïvement comment redonner un sens au mot humanisme. Or, Heidegger y ressasse son ontologie, sans guère s’étendre sur l’humanisme lui-même. Günther Mensching l’a brièvement synthétisée comme suit :
« Pour l’exprimer en une formule, la tâche de Heidegger est de donner effectivement un nouveau sens au mot humanisme, en distinguant l’humanisme traditionnel qui s’appuie sur la définition de l’homme comme animal rationale, d’un humanisme qui définit l’homme comme Dasein au sens heideggérien. Cette différence a pour conséquence que l’homme est déterminé comme un étant restreint à la seule fonction d’accepter le « destin de l’être » (Geschick des Seins). Par là l’homme parvient à la propriété (Eigentlichkeit), c’est-à-dire, l’entente originaire de l’être survient, la clairière s’ouvre. Cependant, ce n’est pas l’effet d’une activité réfléchie de l’individu, mais un événement inattendu. L’attitude la plus adéquate est donc une certaine humilité pour attendre l’avènement de l’être. On voit bien que c’est le contraire de l’humanisme dont l’idée est inséparablement liée à l’autonomie et à la dignité de chaque individu en tant que représentant de l’humanité entière. » (14)

C’est une chose qui a pu paraître malaisée à expliquer que cet étrange engouement de philosophes français, très généralement classé politiquement à gauche, pour la philosophie d’Heidegger. Sartre ne l’avait pas bien compris, puisqu’il y verra de quoi alimenter ses idées sur la liberté et la responsabilité de l’homme. (15) D’autres en retiendrons la mise en procès de la raison, consolidée selon eux par une certaine lecture de Nietzsche. Même si Jacques Bouveresse s’attachera à dénoncer cette mécompréhension d’Heidegger et cette inclination à une incohérente relativisation de la vérité (16), ce sont ces essayistes-là qui tiendront longtemps le haut du pavé, jusqu’à imprimer dans la doxa une forme d’irrationalité savante que l’on se plut à appeler le post-modernisme. Deleuze, Foucault et Derrida - entre autres - ébranlèrent si bien le rationalisme des Lumières qu’ils poussèrent leurs lecteurs à accepter l’idée d’une gestation du totalitarisme en son sein.

Il serait très présomptueux d’affirmer que c’est à tout cela que l’on doit l’irrationalisme actuel. Il le serait sans doute davantage encore de prétendre que cela n’y soit pour rien. Qui ou quoi génère quoi ? Voilà certainement une des questions les plus complexes à résoudre. Force est pourtant de constater que les orientations prises aujourd’hui par les canons du beau, du bien et du bon - de l’art, de la morale et de la politique - partagent quelque chose qui doit peu à l’esprit critique, à la mise en perspective, au doute méthodique, à l’approche rationnel. Dans le domaine politique, là où les procédures électives - quels qu’en soient les faiblesses - éclairent quelque peu sur les préférences, il apparaît que les personnes et les discours déraisonnables parviennent à présent à séduire ; il est inutile de citer les noms qui illustrent si bien cette tendance, tant ils font parler d’eux dans les médias.

Troisième moment

J’en viens à La philosophie des Lumières d’Ernst Cassirer (17). Publié trois ans après la rencontre de Davos et un an avant l’exil vers la Suède puis les États-unis, ce livre tente une analyse approfondie de ce que furent les caractéristiques d’un courant de pensée qui cherche ce qu’est la nature, ce qu’est la connaissance, ce qu’est la religion, ce qu’est l’histoire, ce que sont les institutions, ce qu’est le beau. Au-delà de l’hétérogénéité de ce courant, Cassirer s’applique à dégager des tendances et même à définir ce qu’il appelle l’esprit du siècle des Lumières.

Ce qui le conduit à écrire :
« Pour les grands systèmes métaphysiques du XVIIe siècle, pour Descartes et Malebranche, pour Spinoza et Leibniz, la raison est la région des “vérités éternelles”, ces vérités qui sont communes à l’esprit humain et à l’esprit divin. Ce que nous connaissons et apercevons à la lumière de la raison, c’est “en Dieu” donc que nous le voyons immédiatement : chaque acte de la raison nous assure de notre participation à l’essence divine, nous ouvre le royaume de l’intelligible, du suprasensible absolu. Le XVIIIe siècle prend la raison en un sens différent et plus modeste. Elle n’est plus une somme d’“idées innées”, antérieures à toute expérience, qui nous révèle l’essence absolue des choses. La raison se définit beaucoup moins comme une possession que comme une forme d’acquisition. Elle n’est pas l’aerarium, le trésor public de l’esprit où la vérité est entreposée comme monnaie sonnante et trébuchante mais le pouvoir original et primitif qui nous conduit à découvrir la vérité, à l’établir et à s’en assurer. Cette opération de s’assurer de la vérité est le germe et la condition indispensable de toute certitude véritable. C’est en ce sens que tout le XVIIIe siècle conçoit la raison. Il ne la tient pas pour un contenu déterminé de connaissances, de principes, de vérités mais pour une énergie, pour une force qui ne peut être pleinement perçue que dans son action et dans ses effets. Sa nature et ses pouvoirs ne peuvent jamais se mesurer pleinement à ses résultats ; c’est à sa fonction qu’il faut recourir. Et sa fonction essentielle est le pouvoir de lier et de délier. Elle délie l’esprit de tous les simples faits, les simples données, de toute croyance fondée sur le témoignage de la révélation, de la tradition, de l’autorité ; elle ne connaît pas de repos tant qu’elle n’a pas mis en pièce jusque dans ses derniers éléments et ses derniers mobiles la croyance et la “vérité-toute-faite”. Mais après ce travail dissolvant s’impose de nouveau une tâche constructive. La raison ne peut évidemment demeurer parmi ces disjecta membra, il lui faut en faire un nouvel édifice, une véritable totalité. Mais en créant elle-même cette totalité, en amenant les parties à constituer le tout selon la règle qu’elle a elle-même édictée, la raison s’assure une connaissance parfaite de la structure de l’édifice ainsi engendré. Elle comprend cette structure parce qu’elle peut en reproduite la construction dans sa totalité et dans l’enchaînement de ses moments successifs. C’est pas ce double mouvement intellectuel que l’idée de raison se caractérise pleinement : non comme l’idée due être, mais comme celle d’un faire. » (18)

J’incline à croire que Cassirer a de la sorte saisi pleinement ce qui marque l’originalité du rapport à la raison qui fut celui du XVIIIe siècle, mais qu’il a également su ainsi délimiter ce qui fait l’exact usage de la raison en général, tout particulièrement dans cette première partie de l’extrait cité, là où il s’en tient à ce qu’il appelle son « travail dissolvant ». Si la phase « constructive » a bien occupé les philosophes du XVIIIe siècle, je reste personnellement persuadé qu’elle porte à des conclusions qui restent à l’occasion hors de portée de la raison agissante.

Si la raison s’est faite à ce point opérante au XVIIIe siècle, c’est qu’elle avait du pain sur la planche, à savoir des déraisons à confondre. Cela ne signifie évidemment pas qu’elle fonde par elle-même le juste et le beau, même si certains n’hésitent pas à la convoquer à cet effet. Lorsque le fondement divin du droit fut suspecté, on lui trouva une alternative : la nature. Et ce qui fut alors jugé juste, comme ce qui fut jugé beau, ce fut ce que l’air du temps, en ce compris le souci du raisonnable, dictait tel. Le raisonnable, c’est à la fois - dans un premier temps - ce qui est conforme à la raison, mais aussi - dans un deuxième temps - ce qui a beaucoup de bon sens, ce qui n’exagère en rien. Que ce qui est estimé raisonnable selon le deuxième temps soit entendu comme conforme au premier, voilà qui ne doit guère étonner.

« Les lois dans la signification la plus étendue sont les rapports qui dérivent de la nature des choses » nous dit Montesquieu. (19) Le jusnaturalisme de l’époque, lorsqu’il se borne à décrire ce que devraient être des lois justes, reflète ce souci de rationalité tant encouragé par Grotius, alors même qu’il ne doit probablement l’essentiel de ses principes qu’à l’atmosphère raisonnable dans laquelle il s’exprime.

« Un jugement de valeur qui se pense comme juste, ne prétend pas traiter en effet de la “chose même” et de sa nature absolue, il n’énonce qu’une relation subsistant entre les objets et nous-mêmes, sujets percevant, sentant et jugeant. Cette relation peut, en chaque cas particulier, être “vraie” sans pour autant être jamais strictement la même, car la nature et donc la vérité d’une relation ne dépend jamais de l’un seulement des deux membres qu’elle unit mais de la manière dont ils se déterminent réciproquement. » (20) C’est là ce que dit Cassirer lorsqu’il évoque l’esthétique. Mais cela reste vrai pour les questions morales, à ceci près que, moi qui vis au XXIe siècle, je ne ferai pas dépendre le jugement des deux seuls membres de la relation, mais également de tous ces tiers qui participent à modeler mon habitus.

* * *

Tout cela revient-il à dire que les mises en cause de la raison sont logiquement déraisonnables ? Non. Car il importe de comprendre que ce que certaines d’entre elles visent, ce sont ces prétendus savoirs qui se donnent pour le pur produit de la raison. Lorsque Bourdieu évoque les démérites de la raison savante, il ne cible rien d’autre. Voilà qui justifie la distinction faite entre la raison agissante, celle qui s’attache à la manière dont le savoir est acquis, et la raison absolue, celle dont sortiraient toutes armées les connaissances possédées.

Les attaques contre la raison que j’ai évoquées supra emporte très généralement les deux. Elles ont fait le lit d’un irrationalisme qui, non seulement a conduit une part non négligeable de la philosophie vers des espaces éthéréens, mais a aussi favorisé l’invasion dans la vie quotidienne de denrées et artefacts dont le succès doit tout à l’imposture de zélateurs cupides et à la naïveté de consommateurs illusionnés. Que Donald Trump puisse se vendre comme c’est le cas aujourd’hui n’en est qu’une des multiples manifestations !

Non, les Lumières n’ont pas préparé le communisme et le nazisme. Non, la raison ne s’est pas mise à la solde du totalitarisme. Le prétendre, c’est n’avoir décidément pas compris ce qu’est la raison.

(1) Heidegger a initialement inscrit sa démarche dans la phénoménologie husserlienne, laquelle ne m’a jamais convaincu davantage (cf. ma note du 10 avril 2015).
(2) Claude Lévi-Strauss, L’origine des manières de table, Plon, 1968, p. 422.
(3) On trouve la reproduction des exposés dans Ernst Cassirer et Martin Heidegger, Débats sur le kantisme et la philosophie et autres textes, présentés et traduits par Pierre Aubenque, Éd. Beauchesne, 1972. Aubenque n’y cache pas son enthousiasme pour Heidegger. Il en va de même pour Emmanuel Levinas que l’on peut écouter en parler dans cette vidéo (je n’ai pu dénicher la date de cet enregistrement ; il est très probablement des années 80 ou de la première moitié des années 90).
(4) Cf. par exemple Emmanuel Faye (sous la direction de), « Cassirer et Heidegger : Un siècle après Davos », Éd. Kimé, 2021. Cf. également les interventions des participants à la journée d’étude “Pensée identitaire et cosmopolitisme : Martin Heidegger / Ernst Cassirer” qui est à l’origine du livre, interventions facilement accessibles sur Youtube.com.
(5) Martin Heidegger, Réflexions VII-XI : Cahiers noirs (1938-1939), trad. de Pascal David, Gallimard, Bibliothèque de philosophie, 2018 ; Réflexions II-VI : Cahiers noirs (1931-1938), trad. de François Fédier, 2018 ; Réflexions XII-XV: Cahiers noirs (1939-1941), trad. de Guillaume Badoual, 2021.
(*1) E. Jünger, Essai sur l’homme et le temps, t. I Traité du Rebelle (Der Waldgang, 1951), Monaco, Edition du Rocher, 1957, t. I, pp. 47-48 (on trouvera à la page 66 une référence tout à fait évidente, bien qu’implicite, à Heidegger).
(6) Pierre Bourdieu, “L’ontologie politique de Martin Heidegger” in Actes de la recherche en sciences sociales, n° 5-6, novembre 1975, pp. 116-117. C’est P. B. qui souligne.
(7) Pierre Bourdieu, L’ontologie politique de Martin Heidegger, Éd. de Minuit, Le sens commun, 1988.
(8) Le livre de Victor Farias Heidegger et le nazisme (trad. par  Myriam Benarroch et Jean-Baptiste Grasset, Verdier, 1987) venait d’être publié et les journaux lui avait donné un large écho (cf. par exemple Roger-Pol Droit, “Heidegger était-il nazi” in Le Monde du 14 octobre 1987).
(9) Pierre Bourdieu, L’ontologie politique de Martin Heidegger, Éd. de Minuit, Le sens commun, 1988, p. 7.
(10) Ibid., pp. 7-8.
(11) À écouter sur France Culture.
(12) Martin Heidegger, “Sérénité” in Questions III et IV, trad. par André Préau, Gallimard, Tel, 1966, p. 137.
(13) Martin Heidegger, “Lettre sur l’humanisme” [1946] in Questions III et IV, trad. par Roger Munier, Gallimard, Tel, 1966, pp. 65-127.
(14) Günther Mensching, “Heidegger, le nazisme et la philosophie française” in Philosopher en France sous l’occupation (sous la dir. d’Olivier Bloch), Éditions de la Sorbonne, 2009, p. 162.
(15) Cf. Jean-Paul Sartre, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, 1943.
(16) Cf. notamment Jacques Bouveresse, Rationalité et cynisme, Éd. de Minuit, 1984 et Nietzsche contre Foucault : Sur la vérité, la connaissance et le pouvoir, Agone, Marseille, 2016. Voir aussi cette très brève vidéo dans laquelle le même Bouveresse évoque le cas Heidegger.
(17) Ernst Cassirer, La philosophie des Lumières [1932], trad. de l’allemand par Pierre Quillet, Fayard, 1966.
(18) Ibid., pp. 47-48.
(19) Montesquieu, “L’esprit des lois” in Œuvres complètes, Librairie Hachette et Cie, p. 128.
(20) Ernst Cassirer, Op. cit., p. 301.