samedi 25 novembre 2023

Nota di lettura : Alessandro Manzoni

I promessi sposi
di Alessandro Manzoni
(*)

Il romanzo di Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1), è un capolavoro assoluto. Questa è almeno l'opinione della maggior parte dei critici che ne hanno parlato. Cos'è un capolavoro assoluto ? Perché merita il romanzo di Manzoni di essere descritto in questo modo ? É quello che vorrei districare un po’.

Prima di tutto devo raccontare ciò a cui ho assistito di recente. A un gruppo di persone - una ventina, accomunate dall'amore per l'Italia e la lingua italiana e molti di loro abituati a leggere romanzi - è stato chiesto chi tra loro avesse letto il romanzo di Manzoni. Nessuno di loro lo aveva fatto. E una di loro si è giustificata dicendo che ci aveva provato, ma aveva rinunciato perché aveva trovato il libro noioso.

Un capolavoro assoluto da un lato, un libro noioso dall'altro. Mi sembra che questa sia una caratteristica dei nostri tempi, e un segno dell'evoluzione che sta interessando tutti gli aspetti della vita sociale. La questione è che cosa provoca la noia. Varia da un'epoca all'altra, da un ambiente all'altro, da una persona all'altra. Ma, nel complesso, rivela qualcosa di molto importante sul futuro del mondo sociale e sulla sua capacità di dominare le sfide che deve affrontare. Credo che il romanzo di Manzoni offra l'opportunità di riflettere su questo.

Dunque, la mia presentazione si articola in tre parti, in tre domande :
- innanzitutto, chi era Alessandro Manzoni ?
- in secondo luogo, cosa troviamo nel suo romanzo ?
- e in terzo luogo, se mi è consentito, cosa significa oggi la noia e, allo stesso modo, qual è il significato dell'incapacità dei giovani di rimanere concentrati su un singolo argomento per tutto il tempo necessario ?

Chi era Manzoni ?

Per cominciare, la sua stessa vita. E poi, il suo modo di essere romanziere.

Per quanto riguarda la sua vita, sarò molto breve. La vita di Alessandro Manzoni merita senza dubbio di essere approfondita, anche perché contiene la chiave del suo romanzo. Ma non ne so molto e non sono ancora in grado di stabilire i legami rilevanti tra la vita dell'autore e la sua opera. Mi limiterò quindi ad alcuni fatti che lo collocano temporalmente e intellettualmente.

Nacque a Milano nel 1785 da una famiglia benestante. Suo padre, l'anziano conte Pietro Manzoni, era probabilmente solo il marito della madre. Il suo vero padre sarebbe stato Giovanni Verri, un letterato. L'ambiente in cui crebbe lo portò a definirsi liberale e anticlericale. Liberale nel senso che la parola aveva all'epoca, cioè favorevole al progresso, alle nuove idee e alla scienza.

I suoi genitori si separarono nel 1792 - aveva 8 anni - e lui fu affidato al padre, che perse interesse per lui ma lo affidò a eccellenti istituzioni educative.

Nel 1805 raggiunse la madre a Parigi. Vi rimase per 5 anni, incontrando poeti, drammaturghi e scrittori francesi. Frequentava regolarmente il salotto di Sophie de Grouchy, la marchesa di Condorcet, vedova di Nicolas de Condorcet. L'influenza francese avrà un impatto decisivo sulla sua concezione della poesia e della letteratura.

Il suo soggiorno a Parigi ebbe altre due conseguenze. Innanzitutto, nel 1808 sposò la figlia di un banchiere calvinista ginevrino, Henriette Blondel. Poi, due anni dopo, accadde qualcosa di ancora più decisivo. Era tra la folla che acclamava Napoleone e Maria Luisa quando un razzo esplose, scatenando il panico. Credendo di aver perso la moglie, si rifugiò nella chiesa di San Rocco. Lì la ritrovò e credette che questa coincidenza fosse una manifestazione di Dio, cosa che lo portò a convertirsi al cattolicesimo.

Tornato a Milano nel 1810, si dedica alla scrittura. Nel 1821 viene pubblicata una prima stesura de I promessi sposi con il titolo Fermo e Lucia. I volumi che compongono la prima versione completa de I promessi sposi furono pubblicati tra il 1825 e il 1827, e l'ultima versione rielaborata - soprattutto per adottare una scrittura italiana sorvegliata - nel 1840.

Nello stesso anno muore Henriette Blondel. In seguito sposò Teresa Stampa-Borri, che fu un'importante iniziatrice del culto manzoniano. Morì a sua volta nel 1861.

Nel 1862 fu nominato senatore del Regno e Presidente della Commissione per l'unificazione della lingua ; nel 1870 accettò la cittadinanza romana in segno di sostegno alla politica nazionale.

Morì il 22 maggio 1873, seppellito con un solenne funerale. L'anno successivo, nel primo anniversario della morte, Verdi gli dedicò la sua messa da requiem, che diresse personalmente al mattino nella Chiesa di San Marco e alla sera al Teatro alla Scala.

Cosa possiamo dire del suo stile come romanziere ?

Manzoni scrisse poesie e opere teatrali, oltre a saggi filosofici, libri di storia e trattati di linguistica. Ha scritto un solo romanzo.

Che cos'è un romanzo ? Il romanzo è un genere letterario che ha una storia. I romanzi iniziarono a essere scritti già nel XIImo secolo. Ma gli storici della letteratura ritengono generalmente che il periodo più interessante per il romanzo sia quello che va dall'inizio del Ottocento all'inizio del Novecento, che chiamano il periodo del romanzo moderno. Come inizi e come finisca il romanzo moderno sono questioni che hanno dato luogo a molti dibattiti e che non affronterò oggi.

Una delle caratteristiche principali del romanzo moderno è il posto che occupa per il romanzo storico. Pensiamo subito a Walter Scott, naturalmente, che è stato una sorta di iniziatore e ha avuto un'enorme influenza su Manzoni. Ma i Francesi non sono da meno : Balzac, ad esempio, il cui primo romanzo della “Comédie humaine”, Les Chouans, pubblicato nel 1829, segna l'inizio di un'opera dedicata alla descrizione di un mondo in cui dominano il denaro, il vizio e il male. Non è questo che il romanzo di Manzoni vuole illustrare. I promessi sposi appaiono molto diversi, se non altro perché Balzac ha pubblicato 93 romanzi per dire quello che aveva da dire, mentre Manzoni lo ha fatto con un solo romanzo - ma quale !

Manzoni occupa un posto piuttosto particolare nella storia del romanzo moderno. Sebbene sia stato subito ammirato, ad esempio da Goethe e Stendhal, e abbia ottenuto il successo che è uno dei tratti distintivi del romanzo moderno, ha scritto un'opera che si distingue da tutti gli altri scrittori che hanno costituito questo movimento letterario, almeno fino a Proust.

Cosa troviamo nel romanzo di Alessandro Manzoni ?

La storia si svolge nel Ducato di Milano e nella Serenissima Repubblica di Venezia tra il 1628 e il 1630. Dopo aver sofferto sotto i francesi in quelle che oggi sono conosciute come Guerre d'Italia, il Ducato è soggetto alla Spagna da l’imperatore Carlo V d’Asburgo. Venezia rimane indipendente, ancora forte del suo impero in Oriente, dove ha vinto la battaglia di Lepanto con l'aiuto della Spagna nel 1571. Ma non è di queste questioni internazionali che Manzoni ci parlerà. Si tratta delle prove e delle tribolazioni di due giovani - Renzo e Lucia - che hanno deciso di sposarsi. Vengono dallo stesso paesino sulle colline sopra Lecco, la cui principale fonte di reddito è la viticoltura e la produzione di seta. Sono poveri e vulnerabili, ma ricchi dei sentimenti cristiani che guidano il loro comportamento.

Le prime pagine del romanzo sono famose. Mostrano un prete pusillanime, don Abbondio, che si arrampica su un sentiero che porta al paesino. Proprio quel giorno deve celebrare il matrimonio di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Ma due sgherri al soldo di un nobile spagnolo, don Rodrigo, che brama la giovane Lucia, lo ostacolano. E questi due sgherri - “bravi” come si diceva a quei tempi - chiedono minacciosamente che il matrimonio non abbia luogo. Il povero don Abbondio, già spaventato dalla sua cameriera Perpetua, sta per cedere sotto minaccia.

Di conseguenza, non solo il matrimonio non avrà luogo, ma gli sposi dovranno prendere strade diverse, in fuga dai bravi di don Rodrigo. Il resto del romanzo racconta le epiche avventure che ognuno di loro affronta prima di ricongiungersi.

Ne I promessi sposi, ci sono tre tipi di personaggi. Innanzitutto, ci sono i personaggi di fantasia. Non sono molti : Renzo, Lucia, la madre di Lucia, don Rodrigo e alcuni personaggi molto secondari. Poi ci sono i personaggi realmente esistiti, ai quali Manzoni conferisce un contegno, azioni e sentimenti immaginari. Infine, ci sono i personaggi storicamente accertati, il cui ruolo non va oltre quanto la ricerca storica ha potuto accertare. Per certi versi, il secondo tipo di personaggi è il più interessante, perché dimostra lo sforzo di stabilire un legame tra finzione e realtà. Due esempi : in primo luogo, il noto personaggio che Manzoni chiama l’Innominato, che abbiamo appreso essere ispirato a Bernardino Visconti, un bandito che fu indotto a pentirsi e a convertirsi alle virtù cristiane ; in secondo luogo, il cardinale Federico Borromeo, nipote di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, noto soprattutto per aver scritto un libro che racconta la peste che colpì Milano nel 1630.

Finzione e realtà : questa è la miscela che, a mio avviso, distingue Alessandro Manzoni dagli altri scrittori di narrativa storica. È stato spesso detto che, tra tutte le influenze che lo hanno ispirato, Cervantes e Rousseau sono tra le più importanti. Ma nell'opera di Rousseau, e più in particolare nel cosiddetto manoscritto Favre, lo scritto preparatorio dell’Emile, c'è molto che alimenta la questione di come la finzione possa aiutarci ad avvicinarci alla realtà. In questo caso, si tratta di capire come l'invenzione del personaggio di Émile faciliti la comprensione della portata filosofica del libro. È lecito porsi la stessa domanda sulla portata del romanzo manzoniano, misurata dalle avventure di Renzo e Lucia.

Mi sembra che ci siano due tipi di testo ne I promessi sposi. Da un lato, c'è la narrazione vera e propria, cioè tutto ciò che riguarda le avventure di Renzo, di Lucia, dell'Innominato o anche di Padre Cristoforo, un personaggio che non è poi così secondario. E dall'altra parte, ci sono le grandi descrizioni degli eventi che segnarono Milano tra il 1628 e il 1630 : la carestia, i tumulti, le revolte che ne seguirono e poi la peste.

È a questo punto che va chiarito un aspetto estremamente importante. Prima di scrivere il romanzo, Manzoni ha svolto un'approfondita ricerca storica per conoscere il più possibile gli anni in questione. Ha letto tutti i documenti disponibili dell'epoca e si è documentato a lungo su come si viveva a Milano, Monza, Bergamo e persino a Lecco. Di conseguenza, il romanzo ha una verosimiglianza storica che non si trova in altri romanzi storici dell’Ottocento ; si pensi, ad esempio, ai romanzi francesi di Victor Hugo, Alexandre Dumas, Gustave Flaubert o Emile Zola. In un interessante saggio pubblicato nel 1983 sulla rivista Alfabeta e intitolato Postille al Nome della rosa, Umberto Eco spiega il posto occupato dalla storia nel suo proprio romanzo Il nome della rosa e la precisione che ha dovuto rispettare, sia per quanto riguarda il contesto generale della storia sia per la verosimiglianza dei personaggi. In questa occasione, egli cita il romanzo di Manzoni e scrive quanto segue : « [...] tutto quello che Renzo, Lucia o Fra Cristoforo fanno poteva essere realizzato solo nella Lombardia del Seicento [...] anche se sono inventati. Dicono di più, e con una chiarezza senza pari, sull'Italia di allora, dei classici libri di storia. » (2)
Nel suo romanzo, Manzoni non nasconde di aver consultato molti scritti dell'epoca. Immagina persino che tutto ciò che riguarda i personaggi, che sospettiamo essere inventati, sia stato trovato in un documento anonimo, di cui non può rivelare la fonte esatta.

Resta il fatto che, nel romanzo, sono i passaggi che descrivono la carestia, le rivolte e la peste quelli più istruttivi dal punto di vista storico. E sono questi passaggi che purtroppo sono considerati noiosi.

(Se ne avessimo il tempo, la lettura di 2 o 3 estratti mostrerebbe facilmente l'interesse delle considerazioni fatte).

Se ne avessi avuto la possibilità, mi sarebbe piaciuto mostrare come, in tutta la loro accuratezza, i personaggi inventati siano quelli che incarnano l'interesse ideologico di Manzoni per una forma di cattolicesimo molto evangelico - lontano, senza dubbio a ragione, dal cattolicesimo della Controriforma che mobilitava gli ambienti colti del primo Seicento - e, dall'altro, i racconti della carestia, delle rivolte e della peste sono intrisi di uno straordinario realismo che, in un certo senso, smentisce la speranza e la carità di Renzo e Lucia.

Devo confessare che la grande preoccupazione per la noia che i giovani di oggi provano nei confronti delle opere classiche mi distrae dalle questioni intellettualmente più interessanti che un romanzo come quello di Manzoni solleva. Questa noia è il segno di una svolta che potrebbe travolgere l'umanesimo e i valori democratici che ne derivano.

Questo mi porta alla terza parte : la noia e l'intrattenimento oggi.

Qui, sto esponendo alcune opinioni discutibili, ovviamente, ancor più discutibili di quelle che ho espresso su Manzoni e il suo romanzo.

Oggi, per la maggior parte dei giovani, la cosiddetta cultura generale è molto spesso noiosa. Perché ? Non è escluso che questa incapacità di rimanere concentrati su un unico argomento sia una delle conseguenze dello sviluppo delle tecnologie della comunicazione : radio, telefono, cinema, televisione, Internet, ecc. che accorciano e abbreviano i contatti, saturano la mente di informazioni e le disperdono al punto da rendere imperativo il continuo bisogno di saltare da un argomento all'altro, distraendo costantemente l'attenzione impedendole di perseverare su un determinato argomento. Quando abbiamo integrato la parola parlata con la scrittura - circa tremila anni fa - abbiamo decuplicato le possibilità di riflessione, poiché ci siamo dotati di una memoria parallela in grado di conservare le nostre idee e quindi di ritornarvi facilmente. Quando abbiamo moltiplicato all'infinito le immagini, abbiamo ristretto queste possibilità, fino a confinare la scrittura agli usi meno favorevoli alla riflessione. I giovani - questa è un'osservazione statistica, ovviamente con molte eccezioni - tendono a filtrare i loro interessi in base alla quantità di tempo che richiedono. Questo non perché le generazioni precedenti fossero più intelligenti, più serie o più conservatrici. È perché ognuna di queste generazioni era immersa in uno stato culturale diverso, che le portava ad annoiarsi con cose diverse. Alcune di queste cose non hanno più valore di altre ; si distinguono per l'eco che danno alle differenze.

Mi spiego meglio.

È vero che la cultura generale è stata per lungo tempo prerogativa delle classi più ricche. È vero che spesso è stata uno strumento di dominio, disprezzo e distinzione. È anche vero che è stato un elemento di discriminazione all'interno del sistema scolastico. Ma tutto questo non toglie nulla alla sua virtù cardinale, che è quella di rendere percepibile la continuità evolutiva che ci rende ciò che siamo. L'ignoranza della cultura generale - e l'ignoranza di questa ignoranza - porta molte persone a vivere il presente come una ripetizione di un modo di essere eterno, che probabilmente rappresenta una perdita di lucidità di cui il caos del mondo di oggi è testimone.

Si pensava che, eliminando da 50 anni la cultura generale da ciò che doveva essere acquisito a scuola, avremmo equiparato le possibilità di successo. Ora dobbiamo riconoscere che siamo effettivamente riusciti a eliminare la cultura generale dalla scuola, ma non siamo riusciti a equiparare le possibilità di successo.

Lasciamo da parte quelle persone spregevoli che usano la cultura generale - o qualsiasi cosa le assomigli - per rendersi interessanti, per sembrare superiori, per mettersi in mostra. Per gli altri, la cultura generale è un potente mezzo per capire cosa ha fatto di noi il passato, e quindi per capire chi siamo, come si sono evoluti i nostri modi di pensare, quanto sono relative le nostre certezze, quanto sono fragili le nostre abitudini, quanto sono effimere le nostre convinzioni. La cultura generale è uno strumento molto efficace per mettere le cose in prospettiva, per capire fino a che punto il tempo ha creato differenze, diversi modi di pensare, diversi modi di vivere e persino diversi modi di morire. Eppure la storia del progresso umano - per quanto precaria e fugace - non è altro che una lenta marcia verso la relativizzazione, verso la messa in prospettiva, verso una conoscenza che si sa essere approssimativa, imprecisa e suscettibile di revisione.

Un popolo tagliato fuori dalla cultura generale è un popolo che chiude gli occhi sul proprio passato, che si riconcilia con la scienza infusa, che ignora le domande che portano alla lucidità, che lascia che sia il caso a guidare la società. Guardare al passato non significa necessariamente essere conservatori, non significa necessariamente voler perpetuare le idee, i poteri e la ricchezza di un tempo. Soprattutto, può essere un'opportunità per immaginare cambiamenti in linea con una giusta misura di ciò da cui siamo venuti.

Leggere il romanzo di Manzoni è darsi un'occasione, tra le mille altre, per capire cosa ci separa dal passato, per capire cosa in questo caso ci separa almeno in parte dall'Ottocento, per capire almeno in parte cosa potremmo pensare del Seicento nell'Ottocento. E questa comprensione si trova in quei passaggi del romanzo che sono ritenuti noiosi, quei passaggi che contengono il prodotto di una ricerca storica ricca di nuovi metodi per l’epoca, quei passaggi che riducono a ben poco la carica ideologica contenuta nel racconto delle avventure di Renzo e Lucia. È vero che la lettura integrale richiede pazienza e perseveranza. Ma è in questo modo che si può arricchire una conoscenza diffusa, composita, incerta, dalla quale si può sperare di trarre giudizi meno bruschi, meno definitivi, meno soggettivi. Il passato fa parte di noi, che ci piaccia o no, che lo sappiamo o no. Se la cultura generale ci dicesse solo questo, varrebbe già la pena di mantenerlo. E Manzoni (e tanti altri) andrebbero letti.

Ovviamente, nessuno ha il potere di dire cosa è essenziale e cosa no. Ciò che io considero inessenziale è essenziale per altri, e hanno tutto il diritto di pensarlo. Vorrei semplicemente che tutti fossero in grado di spiegare perché ciò che considerano essenziale è tale. Personalmente, è cosa sto cercando di fare. Ma è vero che sono anche il prodotto della mia storia e che ho nostalgia di ieri, quando potevo credere che le cose sarebbero andate meglio domani.

(*) Questa nota è stata scritta in vista di una breve presentazione a una tavola di conversazione italiana organizzata a Liegi dall'associazione Mimosa.
(1) Alessandro Manzoni, I promessi sposi [1840], I Minimammut, Newton Compton editori, 21ma edizione, 2021. Questo romanzo è stato tradotto in francese (Manzoni, Les Fiancés, Gallimard, trad. da Yves Branca, Folio, 1995).
(2) Non avendo Alfabeta, mi sono permesso di ritradurre queste parole in italiano dalla versione francese : Umberto Eco, Apostille au "Nom de la Rose », trad. di Myriam Bouhazer, Grasset, 1985.

lundi 6 novembre 2023

Note de lecture : Michael Kempe

Sept jours dans la vie de Leibniz
de Michael Kempe


L’histoire de la philosophie présente un intérêt qui, d’une certaine manière, dépasse la philosophie. C’est que l’évolution de la philosophie témoigne d’une interaction avec ce qui n’est pas philosophique, sans qu’il soit vraiment possible de déterminer dans quel sens l’influence est la plus grande. Chaque époque a la philosophie que sa culture propre appelle et chaque culture propre se forge notamment au gré de sa philosophie.

En se penchant sur le cas de Gottfried Wilhelm Leibniz, on ne peut sans doute donner meilleur exemple de cette interdépendance. Car ce philosophe est resté obnubilé par deux questions dont la rencontre a cessé aujourd’hui de mobiliser la philosophie : Dieu et la raison. Je ne peux mieux définir cette collision que ne l’a fait Jacques Brunschwig dans l’introduction qu’il a rédigée aux Essais de théodicée (1) :
« Quand on voit, dans nos procès humains, un accusé confier le soin de sa défense à un avocat particulièrement célèbre, on se prend parfois à penser : faut-il que son affaire soit mauvaise ! À ce compte, l’affaire de Dieu, si l’on ose dire, ne serait pas loin d’être désespérée. Quelques hommes en effet, parmi les plus intelligents et les plus profonds qui aient jamais paru, païens, juifs, catholiques, protestants, ont dépensé des trésors d’énergie et de science à se faire ses défenseurs. Quels soins n’ont-ils pas mis à le laver de toute responsabilité dans le scandale du mal ! S’il est vrai, selon une expression de Kant, que la raison n’a cessé de soulever des accusations contre la sagesse suprême, en s’appuyant sur tout ce qui, dans le monde, contredit au bien, il n’est pas moins vrai que c’est encore la raison qui, au risque de se diviser contre elle-même, s’est constamment employée à justifier Dieu de ces mêmes accusations. » (2)

Ce n’est certes pas la première plaidoirie en faveur de Dieu qui prétend se fonder sur la raison. Saint Anselme et Descartes, pour n’évoquer que les plus célèbres, en ont fait dépendre son existence. Mais le procédé avait ceci de gênant - c’est du moins ce qu’en pensait Leibniz - que l’argument utilisé, la preuve ontologique, était tiré de sa définition, ce qui correspondait en quelque sorte à une rationalité qui se mordait la queue. À l’aube du XVIIIe siècle, il s’agissait d’accorder à la raison davantage de latitude, quitte à ne s’attaquer qu’aux attributs de Dieu, la question de son existence restant somme toute subordonnée à la rationalité de ses buts et de ses moyens.

Évidemment, lorsqu’on parle de la raison, il est indispensable de savoir de quoi on parle. Aujourd’hui, on s’accorde généralement à définir la raison comme la faculté permettant de discerner le vrai du faux et le bien du mal. (3) Mais c’est là une définition qui ne dit rien des moyens mis en œuvre pour obtenir ce résultat, alors même que les plus déraisonnables ne craignent jamais d’affirmer qu’ils détiennent la vérité et agissent pour le bien. Tout le monde pense avoir raison quand bien même les opinions proférées seraient contradictoires.

De quoi parle Leibniz lorsqu’il évoque la raison. Il l’a défini comme « l’enchaînement des vérités », ajoutant ceci :
« La raison, consistant dans l’enchaînement des vérités, a droit de lier encore celles que l’expérience lui a fournies, pour en tirer des conclusions mixtes ; mais la raison pure et nue, distinguée de l’expérience, n’a affaire qu’à des vérités indépendantes des sens. » (4)
C’est ce qui le conduira à opposer les vérités éternelles aux vérités positives, puis à les qualifier de a priori et a posteriori, appellations que Kant fera siennes.

Lorsque Leibniz parle de Dieu - ce qu’il fait fréquemment -, il distingue volontiers ce que serait un raisonnement de Dieu comparé à celui auquel l’homme peut accéder. Il l’avait fait à propos des points de vue, imaginant le géométral de toutes les perspectives spécifique à Dieu (5). Il l’a fait aussi à propos de la raison :
« Il est vrai que Dieu ne raisonne pas à proprement parler, en employant du temps, comme nous, pour passer d’une vérité à l’autre : mais comme il comprend tout à la fois toutes les vérités et toutes leurs liaisons, il connaît toutes les conséquences, et il renferme éminemment en lui tous les raisonnements que nous pouvons faire, et c’est pour cela même que sa sagesse est parfaite. » (6)
Ce sont là des manières de raisonner qui sont liées à une époque, d’autant que les croyants d’aujourd’hui y sont probablement assez peu sensibles. Pour moi qui préfère me passer de l’hypothèse de Dieu, elles restent pourtant très intéressantes, ne serait-ce que parce qu’elles cernent les limites de l’esprit humain d’une façon qui demeure profitable à quiconque.

Il convient bien sûr de s’arrêter un instant sur ces vérités dont l’enchaînement correspondrait à l’usage de la raison. Car il y a bien sûr présomption de vérité, ce qui rend tout raisonnement incertain. Moins que toute affirmation qui ferait fi de la raison ? Peut-être pas, puisqu’on s’applique à ce que ce que l’on croit vrai ait des chances de l’être. C’est généralement le mieux qu’on peut faire. Du moins est-ce là ce que l’on est aujourd’hui conduit à penser. Car pour Leibniz, la présomption de vérité - du moins à l’égard des vérités éternelles - était sans doute bien plus forte. Il pouvait supposer que les sens trompent souvent ; mais l’a priori se révélait de manière autrement impérieuse. Il bénéficiait de la force de ce que Descartes avait appelé l’évidence (7).

L’enchaînement des vérités présente, selon moi, une autre faiblesse. Lorsque Jacques Brunschwig évoquait cette situation où la raison courait le risque « de se diviser contre elle-même » parce qu’elle participait à justifier deux idées contradictoires, il mettait en fait le doigt sur la prémisse de l’enchaînement, laquelle ne dérive pas d’une vérité antérieure. Si l’on peut admettre que les différentes vérités - j’aimerais mieux dire les différentes propositions - qui se succèdent au fil de leur enchaînement se confortent l’une après l’autre, la première n’a aucun précédent. Elle constitue l’affirmation hasardée que la suite entend valider. Il est donc possible de raisonner au départ d’une idée fausse aussi bien qu’au départ d’une idée vraie. Reste bien sûr que l’irrationalité - dont on pourrait dire qu’elle consiste à s’en tenir à une prémisse ou à enchaîner (disons plutôt inventorier) des prémisses indépendantes les unes des autres - augmente très considérablement le risque de prendre du faux pour du vrai. La raison demeure le meilleur recours contre l’erreur, même si la croire infaillible serait une erreur de plus.

En fait, je suis porté à croire que tout l’intérêt de l’œuvre de Leibniz réside dans ce qui nous semble malaisé à approuver.

Prenons un autre exemple : celui des idées innées dont il parle au début des Nouveaux essais sur l’entendement humain, alors qu’il se consacre à construire une critique de l’Essai sur l’entendement humain de John Locke. Théophile, qui ne peut être identifié qu’à Leibniz répond à Philalèthe en déclarant notamment ceci à propos du nouveau système (celui de Leibniz, bien sûr) :
« Ce système paraît allier Platon avec Démocrite, Aristote avec Descartes, les scolastiques avec les modernes, la théologie et la morale avec la raison. Il semble qu’il prend le meilleur de tous côtés, et que puis après il va plus loin qu’on est allé encore. J’y trouve une explication intelligible de l’union de l’âme et du corps, chose dont j’avais désespéré auparavant. Je trouve les vrais principes des choses dans les unités de substance que ce système introduit, et dans leur harmonie préétablie par la substance primitive. J’y trouve une simplicité et une uniformité surprenantes, en sorte qu’on peut dire que c’est partout et toujours la même chose, aux degrés de perfection près. Je vois maintenant ce que Platon entendait, quand il prenait la matière pour un être imparfait et transitoire ; ce qu’Aristote voulait dire par son entéléchie ; ce que c’est que la promesse que Démocrite même faisait d’une autre vie, chez Pline ; jusqu’où les sceptiques avaient raison en déclamant contre les sens, comment les animaux sont des automates suivant Descartes, et comment ils ont pourtant des âmes et du sentiment selon l’opinion du genre humain. » (8)
Parmi tout ce que Théophile en tire, il y a ceci :
« […] j’ai toujours été, comme je le suis encore, pour l’idée innée de Dieu, que M. Descartes a soutenue, et par conséquent pour d’autres idées innées et qui ne nous sauraient venir des sens. Maintenant je vais encore plus loin, en conformité du nouveau système, et je crois même que toutes les pensées et actions de notre âme viennent de son propre fonds, sans lui pouvoir être données par les sens […]. » (9)

Ce qui, à ce moment-là, fait la différence entre Locke et Leibniz, c’est que ce dernier n’a pas voulu rompre totalement avec l’aristotélisme et avec la scolastique. Leibniz est un homme conciliant qui prête à chaque auteur discuté des mérites qu’il serait dommageable d’ignorer. C’est de la sorte qu’il a traité Pierre Bayle dans ses Essais de théodicée ; c’est encore de cette façon qu’il en use avec John Locke dans ses Nouveaux essais sur l’entendement humain ; c’était déjà comme cela qu’il lisait Aristote ou Thomas d’Aquin. Ce n’est pas qu’il n’ait sa propre opinion, consolidée par sa foi en sa raison ; mais il le fait sans agressivité, peut-être convaincu - lui l’homme de cour - des avantages de la courtisanerie. Le monde n’est-il pas le meilleur des possibles ?

Je viens de lire les Sept jours dans la vie de Leibniz de Michael Kempe (10). Michael Kempe est un historien allemand diplômé en 2000 de l’Université de Constance et directeur depuis 2011 du Centre de recherche Leibniz de l'Académie des sciences de Göttingen aux archives Leibniz de la bibliothèque Leibniz de Hanovre. Il avait préalablement étudié la philosophie à Constance, ainsi qu’au Trinity College de Dublin. C’est dire s’il a une certaine connaissance de l’œuvre de Leibniz, mais aussi et surtout de sa vie.

Personnellement, j'incline à croire que l’intérêt premier du livre de Kempe réside dans la façon dont il établit un parallèle entre l’œuvre et la vie de Leibniz. J’ai jusqu’ici beaucoup insisté sur l’époque et sur la façon dont celle-ci imprime en nous les schémas mentaux qui nous font juger les choses, Leibniz lorsqu’il prend position sur les questions philosophiques, religieuses, scientifiques, historiques de son temps, nous lorsque nous jugeons Leibniz avec les schémas d’aujourd’hui. Mais je n’ai pas la naïveté de croire que les schémas d’une époque sont univoques. Ils sont au contraire très variés, dans une variété qui occupe un champ dont il est très malaisé de sortir, mais néanmoins un champ au sein duquel les controverses peuvent être nombreuses, quelquefois acharnées, d’autres fois encore productrices de violences, de guerres et d’horreurs. Ce qui fait la spécificité de Leibniz dans ce champ intellectuel qui est celui de la deuxième moitié du XVIIe siècle et du début du XVIIIe - ce qui fait qu’il se distingue de Hobbes, d’Arnaud, de Spinoza, de Locke, de Malebranche, de Bayle -, c’est ce que son histoire personnelle à imprimé en lui. Bien sûr, la genèse de chaque trait qui lui est propre est impossible. Mais il reste faisable de documenter ses écrits au départ du contexte particulier dans lequel ils ont été rédigés.

Pour approcher un seul exemple de ce que révèle le livre de Michael Kempe, je m’en tiendrai à la journée du 2 juillet 1716, la dernière des sept évoquées. Leibniz a 70 ans et mourra quatre mois plus tard. Il vient tout récemment de rencontrer le tsar Pierre Ier à Pyrmont, à qui il a suggéré de monter des expéditions dans le nord-est de la Sibérie afin de vérifier si l’Asie et l’Amérique du nord se touchent. Ce jour-là, il écrit comme d’habitude de nombreuses lettres, et notamment une à Louis Bourguet, géologue, naturaliste, mathématicien, philosophe et archéologue suisse. Du contenu très riche de cette lettre et des différentes discussions que Leibniz a présentes à l’esprit à cette occasion, Kempe donne à voir l’extraordinaire profusion des questions auxquelles Leibniz prête attention. Nombreuses sont celles qu’il échafaude lui-même ; nombreuses aussi sont celles qu’on lui impose. Lui qui fut toujours partisan de la conciliation, le voilà confronté à deux disputes assez âpres : d’abord, celle que lui font ceux qui l’accusent de plagiat dans l’affaire du calcul infinitésimal dont ils attribuent l’invention à Newton ; ensuite, celle qu’alimente le théologien britannique Samuel Clarke à propos de la trinité métaphysique de Dieu et du caractère absolu ou relatif du temps et de l’espace.

Ce qu’illustre avant tout cette lettre adressée à Louis Bourguet, c’est ce qui résulte d’une vie consacrée à la curiosité savante. Leibniz est vieux, perclus et souffrant (il est atteint d’éprouvantes inflammations articulaires) et il ne cesse pourtant de s’interroger, d’interroger ses correspondants, d’élaborer des projets de recherche. Ainsi, il discute avec Bourguet de l’âge de la Terre, réfutant audacieusement les durées en millénaires que la Bible révélerait. Il argumente à propos des fossiles, de ce dont ceux-ci témoignent. Il parle de l’évolution, conséquence du principe de continuité qui lui est si cher. Toute cela lui vient nécessairement d’une vie durant laquelle l’interrogation est devenue quelque chose comme une seconde nature. Ce qui l’a conduit à cet état de vieux hyperactif, c’est-à-dire d’un homme que le corps abandonne progressivement, mais dont l’esprit n’abdique pas.

Je suis tenté d’admirer chez Leibniz une certaine façon de ne jamais renoncer à relier tout dans un monde unique, allant du microcosme au macrocosme, sans pourtant prétendre avoir le fin mot de tout.
« Décider, après un certain temps de réflexion, de ne pas décider est typique de Leibniz. Il y voit un principe d’économie des ressources intellectuelles. Car, parce qu’il ne peut s’abstenir de s’attaquer simultanément à plusieurs tâches différentes, il lui reste notoirement peu de temps pour mener des raisonnements ou des recherches au long cours. Il se sent “comme l’animal tigre dont on dit que ce qu’il n’atteint pas au premier, au deuxième ou au troisième bond, il le laisse courir”. » (p. 298)
C’est sans doute ce qui l’a amené à accorder tant de place à la question des possibles (11)

Bref, je suis porté à croire que ce que sa propre histoire a fait de Leibniz illustre peut-être la pertinence de ce nécessitarisme auquel il a voulu résister, de la même manière que l’époque à laquelle il a vécu a produit Leibniz, parmi bien d’autres choses bien sûr. Et de la même manière aussi que notre époque conduit nombre d’entre nous à ne pas comprendre Leibniz, en tout cas comme il aurait sans doute aimé être compris.

Ce que j’en dis là est très probablement de nature à offusquer les spécialistes de Leibniz, car je n’en suis pas un. Mais dans la mesure où je l’ai lu comme j’en parle, cela représente une compréhension possible - un possible advenu, donc épistémique - qu’il n’est peut-être pas indigne de révéler.

(1) Leibniz, Essais de théodicée sur la bonté de Dieu la liberté de l’homme et l’origine du mal, Garnier-Flammarion, 1969.
(2) Ibid., p. 9.
(3) Cf. le portail lexical du Centre national de Ressources Textuelles et Lexicales (www.cnrtl.fr/lexicographie/raison) , I A 3 a).
(4) Leibniz, Op. cit., p. 50.
(5) Maurice Merleau-Ponty a très clairement expliqué cette comparaison : « Notre perception aboutit à des objets, et l’objet, une fois constitué, apparaît comme la raison de toutes les expériences que nous en avons eues ou que nous pourrions en avoir. Par exemple, je vois la maison voisine sous un certain angle, on la verrait autrement de la rive droite de la Seine, autrement de l’intérieur, autrement encore d’un avion ; la maison elle-même n’est aucune de ces apparitions, elle est, comme disait Leibniz, le géométral de ces perspectives et de toutes les perspectives possibles, c’est-à-dire le terme sans perspective d’où l’on peut les dériver toutes, elle est la maison vue de nulle part. » (Phénoménologie de la perception [1945], Paris, Gallimard, “Tel”, 1974, p. 81.)
(6) Leibniz, Op. cit., p. 385.
(7) Là où Descartes ne voyait qu’une seule connaissance, Leibniz énumère toute une série de connaissances imparfaites, claires ou obscures, adéquates ou inadéquates, intuitives ou suppositives (cf. Leibniz, “Discours de métaphysiques” [1686] in Discours de métaphysique suivi de Monadologie, Gallimard, Tel, 1995, pp. 66-68).
(8) Leibniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain [1704], GF-Flammarion, 1990, p. 56. Tout comme les Essais de théodicée, les Nouveaux essais ont été écrits en français.
(9) Ibid., p. 58.
(10) Michael Kempe, Sept jours dans la vie de Leibniz [2022], trad. de l’allemand par Olivier Manonni, Flammarion, 2023. Puis-je préciser que je ne suis guère enthousiasmé par la traduction ?
(11) Sur cette question, cf. Jacques Bouveresse, Dans le labyrinthe : nécessité, contingence et liberté chez Leibniz (Collège de France, Philosophie de la connaissance, 2013), et plus particulièrement le cours 5 intitulé “L’intellect, la volonté et les possibles”, notamment disponible sur l’OpenEdition Books du Collège de France. Une vidéo du cours (professé en 2009) est pour l’instant visible sur Youtube.