vendredi 28 mars 2025

Nota di lettura : Carlo Levi

Cristo si è fermato a Eboli
di Carlo Levi


Si svolge nel 1935. Siamo in un piccolo paese della Basilicata, dove i contadini, isolati dal mondo, lottano per sopravvivere. Così isolati dal mondo che non erano affatto cristiani, dominati più da una moltitudine di credenze superstiziose che dai dettami della Chiesa cattolica. È come se Cristo non fosse andato oltre Eboli, la città campana che si attraversa andando da Napoli alla Lucania.

Una compagnia teatrale siciliana mette in scena una commedia di Gabriele d’Annunzio : La fiaccola sotto il moggio. Lo spettacolo è molto seguito dai contadini. E tra i contadini c'è Carlo Levi, un torinese agli arresti domiciliari - confinato, come si diceva a l’epoca - ad Aliano (un piccolo paese arroccato sopra il Sauro, affluente dell'Agri). Carlo Levi era scrittore, medico e pittore. Ha raccontato la sua esperienza di arresti domiciliari nel libro che lo ha reso famoso, Cristo si è fermato a Eboli (1), un capolavoro da non dimenticare - almeno finché lo si legge - sulla sorte delle regioni disagiate del Sud nell’era del fascismo. Nel suo libro racconta questa rappresentazione teatrale. E questo è ciò che ha da dire al riguardo :
« Naturalmente, mi aspettavo un gran noia da questo dramma retorico, recitato da attori inesperti, e aspettavo il piacere della serata soltanto dal suo carattere di distrazione e di novità. Ma le cose andarono diversamente. Quelle donne divine, dai grandi occhi vuoti e dai gesti pieni di una passione fissata e immobile, come le statue, recitavano superbamente ; e, sul quel palco largo quattro passi, sembravano gigantesche. Tutta la retorica, il linguismo, la vuotaggine tronfia della tragedia svaniva, e rimaneva quello che avrebbe dovuto essere, e non era, l’opera di D’Annunzio, una feroce vicenda di passioni ferme, nel mondo senza tempo della terra. Per la prima volta, un lavoro del poeta abruzzese mi pareva bello, liberato da ogni estetismo. Mi accorsi subito che questa sorta di purificazione era dovuta, più ancora che alle attrici, al pubblico. I contadini partecipavano alla vicenda con interesse vivissimo. I paesi, i fiumi, i monti di cui si parlava, non erano lontani di qui. Cosí li conoscevano, erano delle terre come la loro e davano in esclamazioni di consenso sentendo quei nomi. Gli spiriti e i demonî che passano nella tragedia, e che si sentono dietro le vicende, erano gli stessi spiriti e demonî che abitano queste grotte e queste argille. Tutto diventava naturale, veniva riportato dal pubblico alla sua vera atmosfera, che è il mondo chiuso, disperato e senza espressione dei contadini. » (p. 161)

In questo estratto del libro c'è buona parte di ciò che esso rappresenta. L'incontro tra un intellettuale piemontese e i contadini di una regione così abbandonata al suo destino da ignorare inconsapevolmente tutto ciò che costituisce il resto dell'Italia, dalla sua religione alle sue più illusorie aspirazioni nazionaliste, per non parlare delle sue risorse più condivise - cibo, salute e istruzione. Ciò che i contadini scoprono in questo straniero sono, paradossalmente, ragioni per non odiare e persino per sperare negli altri. Ciò che Carlo Levi scopre nei contadini è il legame inestricabile tra miseria e detestazione, e la misura in cui questa detestazione porta con sé la sofferenza generata dalla disperazione e dalla desolazione. D'Annunzio stesso non vide la verità nella descrizione della campagna abruzzese, verità che i contadini lucani videro subito e che diede a Levi l'opportunità di vedere ciò che la commedia da sola non poteva capire.

Quella che oggi è l'attrazione turistica della regione era allora lo scenario di una completa indigenza, dove l'estate significava un doloroso lavoro improduttivo sotto un sole schiacciante e l'inverno una dolorosa attesa al freddo e al buio. E, stagione dopo stagione, una fame che i magri espedienti non riuscivano a placare.

Personalmente, sono convinto che sia indispensabile andare oltre l'emozione suscitata dal racconto di Carlo Levi, guardare al di là della miseria descritta e dell'odio dissipato, e persino prescindere dal talento letterario con cui le memorie sono raccontate. Perché la posta in gioco in questo libro è la natura umana che piega le sue inclinazioni quando le condizioni di vita riflettono una grande miseria e uno stato di abbandono. È perché Cristo non è andato oltre Eboli che la Basilicata si è trovata senza aiuto, senza speranza, senza quella forma di solidarietà, per quanto piccola, che rende le cose sopportabili e fa intravedere un po' di luce. Il Cristo in questione non è Gesù, ovviamente, ma questa società che il cristianesimo ha in parte forgiato nei secoli. Levi ad Aliano è un cristiano perso tra contadini miserabili, così distaccati dal resto d'Italia da aver dimenticato il sciovinismo. Invece di rifiutare questo ricco condannato dai fascisti, lo vede come un essere umano che può comportarsi in modo diverso, migliore, senza furia o acrimonia. Mentre in una regione meno impoverita avrebbero maledetto lo straniero, in questo paese povero era visto semplicemente come persone che non odiavano gli altri, che non entravano nel gioco infernale delle avversioni quasi rituali.

Quando Carlo Levi ha potuto lasciare il suo domicilio coatto, è emersa la sincerità :
« I contadini venivano a trovarmi et mi dicevano : — Non partire. Resta con noi. Sposa Concetta. Ti faranno podestà. Devi restar sempre con noi —. Quando si avvicinò il giorno della mia partenza, mi dissero che avrebbero bucato le gomme dell’automobile che doveva poetarmi via. — Tornerò, — dissi. Ma scuotevano il capo. — Se parti non torni più. Tu sei un cristiano buono. Resta con noi contadini —. Dovetti promettere solennemente che sarei tornato ; e lo promessi con tutta sincerità : ma non potei, finora, mantenere la promessa.
Infine mi congedai di tutti. Salutai la vedova, il becchino banditore, donna Caterina, la Giulia, don Luigino, la Parrocola, il dottor Milillo, il dottor Gibilisco, l’Arciprete, i signori, i contadini, le donne, i ragazzi, le capre, il monachicchi e gli spiriti, lasciai un quadro in ricordo al comune di Gagliano, feci caricare le mie casse, chiusi con la grossa chiave la porta di casa, diedi un ultimo sguardo ai monti di Calabria, al cimitero, al Pantano e alle argile ; e una mattina all’alba, mentre i contadini si avviavano con i loro asini ai campi, salii, con Barone in gabbia, nella macchina dell’americano, e partii. Dopo la svolta, sotto il campo sportivo, Gagliano scomparve, e non l’ho più riveduto.
 » (p. 234)

Jean-Paul Sartre ha lasciato una prefazione al libro, in cui scrive quanto segue su Carlo Levi :
« […] il segreto della suo opera risiede in un fondamentale atteggiamento cui, mancandomi altre parole, daró il nome di bontà. I buoni libri, è chiaro, non si fanno con i buoni sentimenti, ma non parlo di questo. Si tratta di una disposizione originale : si direbbe che la vita l’abbia scelto per amarsi in lui attraverso lui, in tutte le sue forme. » (p. XV)
In effetti, egli vede il libro come una sorta di inno alla vita. Ma non sono sicuro di seguirlo. È anche la vita così difficile da amare che trova spazio nell'opera di Carlo Levi, una vita che a volte non offre alcuna possibilità di scelta, se non a coloro il cui destino permette loro di meritare l'illusione.

(1) Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 2014.

mardi 25 mars 2025

Note de lecture : Joseph Roth

Notre assassin
de Joseph Roth


Joseph Roth est né en 1894 en Galicie orientale, dans une région aujourd’hui ukrainienne. Ce qu’il advint durant la première moitié du XXe siècle des habitants de ce coin d’Europe explique aisément qu’ils furent amenés à se demander qui ils étaient vraiment. Lui, initialement juif et Austro-hongrois, doutait tant de son identité qu’il oscilla souvent sur bien des questions, au point de se laisser finalement attirer par le catholicisme.

Le malheur ne l’épargna pas. Il avait épousé une femme qui fut assez rapidement placée en sanatorium pour dérèglement mental (1). Il dut fuir à Paris lorsque Hitler accéda au pouvoir. Il en vint à sombrer dans l’alcoolisme.

Si je rappelle ainsi quelques éléments embryonnaires de sa biographie, c’est parce qu’ils me semblent offrir la clé permettant de comprendre le roman, Notre assassin (2), roman qu’il a publié en 1936, trois ans avant sa mort.

À Paris, dans un restaurant russe fréquenté par ceux-là qui ont fui leur terre natale, le narrateur fait la rencontre d’un certain Golubtschick. Les circonstances de la rencontre ne sont pas banales et augurent d’ailleurs de complications liées au qui est qui. Quelqu’un s’adressant à Golubtschick avait demandé, en russe : « Pourquoi notre assassin est-il si sombre aujourd’hui ? » (p. 12). Et le narrateur s’étant retourné, trahissant ainsi avoir compris la question, s’était attiré l’attention de tous. « — Vous êtes donc russe ? me demandait le patron.
Je m’apprêtais à déclarer que non quand, à ma grande stupéfaction, j’entendis l’habitué
[Golubtschick] prendre la parole à ma place, derrière mon dos :
— Ce monsieur comprend le russe, mais il est allemand. S’il a gardé le silence jusqu’à présent, c’est uniquement par discrétion.
— C’est juste, dis-je, en faisant demi-tour, merci, Monsieur.
— Il n’y a pas de quoi.
Il se levait, venait à moi.
— Mon nom est Golubtschick, Sem Semjonowitsch Golubtschick.
Nous échangeâmes une poignée de main. Le patron et les deux autres clients éclatèrent de rire.
— D’où vous viennent ces renseignements sur moi ? demandai-je.
— Ce n’est pas pour rien qu’on a fait partie de la police secrète du tsar.
J’échafaudai instantanément une histoire phénoménale : “Cet homme était un ancien agent de l’Okhrana. À Paris, il avait
descendu un espion communiste. Voilà pourquoi ces russes blancs l’avaient appelé ‘notre assassin’ d’un ton tellement inoffensif, presque avec émotion, sans en avoir l’air effarouchés. Peut-être sont-ils de mèche tous les quatre ?”
— Et comment savez-vous notre langue ? me demanda l’un des deux clients.
Ce à quoi Golubtschick rebondit une fois de plus à ma place :
— Il a fait la guerre sur le front oriental, puis a passé six mois avec la soi-disant armée d’occupation.
— C’est juste, déclarai-je.
Il poursuivit :
— Ensuite il est retourné en Russie. Non, pas en Russie, dans l’Union des républiques soviétiques, veux-je dire. Comme correspondant d’un grand journal. Il est écrivain de son métier.
Ce rapport circonstancié sur ma personne ne m’étonna pas autrement, car j’avais déjà pas mal bu, et quand je suis dans cet état, c’est à peine si je distingue l’exceptionnel du banal.
 » (pp. 13-14)

De quoi donc est faite une identité. D’ailleurs, le mot mérite-t-il d’exister ? Identité ! En 1797 : « caractère de ce qui, sous divers noms ou aspects, ne fait qu'une seule et même chose » (3). Aujourd’hui, par le biais de la psychologie : « Conscience de la persistance du moi » (3). Entre autres, bien sûr. Bizarre, non ? Quelle que soit notre constante diversité, il y aurait un moi obstiné, chronique ? Le fait est que nombreux sont ceux qui le cherchent, ou en tous cas aimeraient le discerner, l’identifier.

On pourrait caractériser une manière particulière de s’assumer qui consisterait au contraire à s’admettre divers et changeant, sans autre identité que celle que génère illusoirement la conscience de soi. Posture difficile et rare, sans doute, mais non dépourvue d’arguments ; posture ingrate aussi, tant elle suppose vaine toute reconnaissance par autrui. Elle donnerait en toute hypothèse une signification nouvelle à cette fameuse exclamation de Montaigne : « chaque homme porte la forme entière de l’humaine condition. » (4) ; humains, nous le sommes tous, alors même que chaque homme exhibe des différences combien profondes.

Joseph Roth, dans son roman, n’use pas du mot identité. Mais c’est cette dimension interrogative qui parcourt l’histoire de Golubtschick. Celui-ci découvre d’abord qu’il fut conçu par un prince nommé Krapotkin, ce qui trouble sa prise de conscience de lui-même. Son parcours doit dès lors beaucoup à cette première révélation, bousculé qu’il sera par l’intention persistante de se voir reconnaître quelqu’un, du moins ce qui s’appelle quelqu’un. Et telle une mauvaise conscience prête à l’encourager dans ses ambitions les plus turpides, un certain Jenö Lakatos rôdera sans cesse alentour.

Évidemment, Golubschick-Krapotkin est aussi celui qui - finalement - se racontera, avec une verve de laquelle transpirent autant de désillusion que de résignation. Est-ce à croire que la vie vaut par le combat que l’on mène, fût-il mesquin ? La question vient à l’esprit.

(1) Elle sera assassinée après la mort de Roth dans le cadre de l’Action T4 des nazis.
(2) Joseph Roth, Notre assassin, trad. de Blanche Gidon, Christian Bourgeois, 1994. Le premier titre de l’ouvrage fut La confession d’un meurtrier.
(3) Cf. CNRTL.
(4) Montaigne, Les Essais, Édition Villey-Saulnier, PUF, Quadrige, 1965, p. 805.

lundi 10 mars 2025

Anecdote : Trump et un philosophe

À propos de Trump et d’un philosophe

Un de mes amis me racontait très récemment qu’il avait eu l’occasion de rencontrer un philosophe avec qui il avait pu échanger au sujet de ce que certains appellent l’ère nouvelle. Vous savez : ce bouleversement des équilibres mondiaux qu’aurait provoqué l’arrivée de Donald Trump à la présidence des États-Unis ! Je ne lui ai pas demandé ce qui justifiait qu’il l’appelle philosophe. Il y a des soupçons qu’il vaut mieux garder pour soi, surtout lorsque rien de concret ne les alimente.

Devant mon silence, il poursuivit :
— Je lui ai dit que, selon moi, la démocratie était aujourd’hui plus que jamais menacée.
— Il était du même avis ?
— En fait, il a commencé par me demander ce que j’appelais la démocratie.
— Et qu’as-tu répondu ?
— Tel un bon élève du cours d’éducation civique, je lui ai décrit - en gros - un régime fondé sur des élections permettant de tenir compte des souhaits du peuple.
— Comme le scrutin qui a permis au peuple américain de choisir Trump pour président ?
— Justement ! C’est là qu’il a contesté la portée de ma définition. Choisir au suffrage universel ses dirigeants, ce n’est pas cela la démocratie, m’a-t-il dit.

Brusquement, mon intérêt pour le proclamé philosophe s’en trouva augmenté. Serait-il un partisan de la démocratie directe, voire de l’anarchie ? Ou bien, au contraire, estime-t-il que le scrutin indirect favorise des choix sages et judicieux ? Ou encore serait-il attaché à un régime de pouvoir personnel ? Si la démocratie ne se satisfait pas du suffrage universel, qu’est-ce donc qui la dépeint mieux ?

— Il s’est expliqué à ce sujet ? demandai-je.
— Oui. Et voici ce que j’en ai retenu.
— Je t’écoute.
— Pour lui, il ne s’agit pas de comprendre la démocratie comme un régime politique dans lequel le pouvoir appartiendrait d’une manière ou d’une autre au peuple, mais plutôt comme un régime qui œuvre autant que possible au bien du peuple tout en lui imposant le moins possible.
— Comme pourrait le faire une monarchie éclairée, par exemple ?
— Non, précisément pas !
— Ah ! Pourquoi ?
— Parce que, selon lui, la démocratie exige deux conditions essentielles et que le suffrage universel n’est que la deuxième de celles-ci. La première de ces conditions, c’est l’existence de contre-pouvoirs. De la même manière qu’une règle première - par exemple une constitution - doit prévoir la tenue régulière d’élections, de la même manière cette règle première doit distribuer les rôles de telle sorte que chaque institution soit surveillée par d’autres institutions, comme l’avait imaginé Montesquieu. Lorsqu’un pouvoir - par exemple l’exécutif - soumet les autres - par exemple le législatif et le judiciaire -, alors il n’y a plus de démocratie possible, même si le pouvoir ainsi abusif bénéficia de la majorité des suffrages exprimés. Pourquoi ? Parce que l’élection traduit la volonté d’une majorité, pas d’une unanimité et que le pouvoir s’impose à tous. Ce qui garantit à tous que le pouvoir recherche malgré tout le bien du peuple tout en lui imposant le moins possible, c’est le fait qu’il ne puisse faire totalement ce qu’il veut, mais soit contraint de tenir compte de ce que les autres pouvoirs ont aussi à dire.
— Tu as dit : recherche malgré tout. Pourquoi malgré tout ?
— Parce que, évidemment, tout pouvoir est susceptible d’être corrompu, ne serait-ce que par les intérêts personnels de celui qui l’exerce. Œuvrer au bien du peuple n’est qu’une manière de désigner la fin globalement poursuivie, en sachant que les occasions de dérives intéressées sont néanmoins nombreuses et permanentes.

J’avais un peu le sentiment que tout cela fleurait bon la naïveté, mais sans être en mesure d’objecter rationnellement. Il me fallait en savoir davantage.

— Ce que tu appelles la fin globalement poursuivie, ne serait-ce pas la carotte avec laquelle on fait avancer l’âne ? l’interrogeai-je.
— C’est précisément la question que je lui ai posé, parce que j’ai parfois l’impression que les philosophes naviguent souvent dans la théorie sans bien mesurer ce que la vie réelle peut avoir d’équivoque.
— Et qu’a-t-il répondu ?
— Je pense que sa conception de la démocratie est surtout guidée par le souci d’entraver autant que possible tout ce qui porte les hommes à se laisser dominer par l’égoïsme et l’egotisme. Le pouvoir est très certainement un des moyens les plus efficaces de satisfaire ces penchants-là. Il m’a parlé de la République romaine comme un des meilleurs exemples d’un régime qui se méfiait des ambitions individuelles et qui avait dispersé en conséquence les pouvoirs. Il m’a même dit qu’il ne partageait pas cette idée que l’Empire n’était que la continuation du régime républicain. Pour lui, au contraire, le régime conçu par Auguste représentait la dérive que la République avait toujours voulu éviter.
— Voilà qui est amusant si l’on se rappelle que le parti de Trump se nomme républicain. Et aussi que ceux qui, en France, s’appellent aujourd’hui les Républicains sont précisément parmi ceux qui craignent le moins de se montrer autoritaires.
— Le mot est pour le moins polysémique. Laisse-moi poursuivre !
— Ok.
— Ce sur quoi il a également beaucoup insisté, c’est sur le fait que la séparation des pouvoirs doit s’entendre de tous les types de pouvoir, comme par exemple ceux qui s’exercent par le biais d’outils aux mains de leurs propriétaires : la presse, les réseaux sociaux, les écoles, les moyens de communication, les instruments d’influence, etc. Il s’agit dans ces différents cas d’assurer une diversité qui met à l’abri de ces monopoles hégémoniques qui assujettissent sournoisement, sans paraître rien imposer.
— Bref, il t’a convaincu. Tu es à présent acquis à l’idée que les élections sont bien moins importantes que la fragmentation du pouvoir. Non ?
— Non. Les élections sont aussi importantes. Il a tenu à le préciser.
— Pour assurer la représentativité de ceux à qui des pouvoirs sont confiés ?
— Pas uniquement. Le premier mérite des élections, pour lui, c’est de limiter dans le temps la durée des mandats. Car il est persuadé qu’un pouvoir qui dure est un pouvoir qui est de plus en plus menacé par la vanité, le caprice, l’arbitraire et même quelquefois le césarisme.

Là, mon ami me sembla séduit par son philosophe. Ce qui me conduisit très probablement à sourire, parce qu’il s’insurgea.
— Tu peux te marrer. N’empêche : qu’as-tu à opposer à tout cela ?
— Rien, rassure-toi ! S’il faut disserter sur le pouvoir, je suis prêt à le faire comme ton philosophe. Mais je dois avouer que je n’aurais sans doute pas l’audace de le faire, tant je reste circonspect vis-à-vis de la dimension politique de la vie en société.
— C’est commode ! Vogue la galère, tu ne t’en préoccuperas pas !
— Non, quand même pas. Mais quoi que je fasse, il est à parier que la galère voguera vers un port que je n’aurai pas choisi.

C’est avec une certaine dose de mauvaise foi que j’avais prononcé ces derniers mots. En avoir pris conscience était peut-être le signe que le bouleversement trumpien avait également eu un effet sur moi.