dimanche 9 novembre 2025

Note di lettura : Carlo Ginzburg e lo “straniamento”

Carlo Ginzburg e lo “straniamento” (*)

Carlo Ginzburg è uno storico italiano, eminente rappresentante della cosiddetta microstoria. Suo padre, Leone Ginzburg, emigrato russo e diventato partigiano fu torturato a morte dalla Gestapo nel 1944. Sua madre, Natalia Ginzburg, nata Levi, divenne famosa come romanziera e vinse il Premio Strega nel 1963.

Carlo Ginzburg è noto per diversi motivi. È stato professore di storia all'Università di Bologna, poi all'Università della California negli Stati Uniti. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il titolo di dottore Honoris Causa dell'Università di Liegi nel 2015.

Si è fatto conoscere anche per alcune polemiche accademiche finite sui giornali, in particolare all'inizio degli anni '90, riguardo alle idee sostenute dal filologo e storico francese Georges Dumézil.

Due parole sulla microstoria. La microstoria è una corrente di ricerca nata in Italia negli anni '70, che abbandona i grandi fatti storici, le masse, le classi sociali per interessarsi agli individui. Come afferma Giovanni Levi, il capofila di questa corrente, non si tratta però di occuparsi di « piccole cose », ma piuttosto di « leggere le cose con un microscopio », di « mostrare quante cose importanti accadono quando apparentemente non accade nulla ».

Piuttosto che passare in rassegna tutte le ricerche e le scoperte che dobbiamo a Carlo Ginzburg, ho scelto di spiegare una delle sue intuizioni che considero la più importante : lo “straniamento”.

Che cos'è lo “straniamento” ? Per descrivere questo concetto un po' complicato, mi riferirò a Carlo Ginzburg, che ne è il creatore, ma anche a un filosofo francese contemporaneo che lo ha diffuso nel mondo intellettuale francofono, ovvero Bernard Sève, professore emerito di filosofia ed estetica all'Università di Lille.

Nel 1998 Ginzburg ha pubblicato un libro intitolato Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza. Gli occhiacci di legno sono gli occhi di Pinocchio, che io interpreto personalmente come colui che non può guardarsi allo specchio senza pensare di non essere quello che crede di essere. Tornerò su questo punto più avanti.

Questo libro, Occhiacci di legno, esplora diverse circostanze - dall'antichità ai giorni nostri - in cui uno o l'altro compie uno sforzo di distacco per superare abitudini, costumi, usi, modi di fare, routine, rituali, ideologie e vedere così le cose con uno sguardo nuovo, che permette di comprendere tutto in modo diverso. Se ci sforziamo di cogliere ciò che sembra strano, ci apriamo a punti di vista diversi da quelli che inizialmente sono i nostri.

Per essere sicuro di far capire di cosa si tratta, vorrei soffermarmi un attimo su un concetto che Ginzburg non menziona direttamente (1) - e forse ha ragione a non menzionarla in quel momento -, ma a cui ho immediatamente pensato leggendolo. Mi riferisco a ciò che Leibniz chiama il geometrale di tutte le prospettive (2). Un punto di vista è un luogo da cui si vede, si sente, si percepisce qualcosa. Ma quel qualcosa può essere visto, sentito e percepito da molti luoghi diversi. In altre parole, tutto può essere percepito da una moltitudine di punti di vista. Immaginate un paesaggio : un paesaggio è una visione d'insieme, colta da lontano. Ma ciò che si vede in questo modo può essere visto anche da altrove, da dove lo stesso paesaggio sarà diverso, molto diverso, talmente diverso da sembrare un paesaggio completamente diverso. Ogni punto di vista offre una prospettiva propria sulle cose. Leibniz parla di Dio e afferma che Dio non vede le cose da un punto di vista, da una prospettiva. Dio vede tutto contemporaneamente in un modo tale [tel] che sembra beneficiare di tutte le prospettive allo stesso tempo. È il geometrale di tutte le prospettive. Si potrebbe anche dire : vede le cose senza prospettiva, perché le vede senza alcun distacco, senza distanza. Non importa Dio, se così posso dire ! La riflessione di Leibniz su questo argomento ci permette di capire quanto, non essendo Dio, siamo condannati ad avere solo punti di vista sulle cose. Ora, un punto di vista, qualunque esso sia, deve ciò che è al luogo da cui nasce molto più che alla cosa che mira .

Tra una miriade di esempi, Ginzburg si sofferma su un passaggio di Montaigne in cui viene raccontato quanto segue.

È il 1562. Montaigne si trova a Rouen con il re e la corte. Il re, Carlo IX, ha allora 12 anni. Sul molo del porto di Rouen si trovano tre nativi di quella che oggi è il Brasile, trasportati in Francia. Montaigne è sbalordito [étonné] dai racconti che descrivono questi indigeni come sopravvissuti dell'età dell'oro, pacifici e innocenti. Ma ciò che gli rimarrà impresso [lui restera gravé dans la mémoire] - all'epoca non ha ancora iniziato a scrivere I Saggi - sono le risposte che questi abitanti delle Nuove Terre daranno quando verrà loro chiesto cosa li abbia colpiti di più da quando sono sbarcati. Due cose :
- trovavano molto strano che tanti uomini alti, barbuti e armati - sicuramente le guardie svizzere - accettassero di obbedire a un bambino, piuttosto che scegliere uno di loro come comandante ;
- di fronte alla magnificenza della corte e indicando le persone intorno a loro, emaciate dalla fame e dalla povertà, trovavano strano che queste ultime sopportassero tale ingiustizia e non si ribellassero.

Questo è ciò che porta Montaigne a scrivere, cito (in francese, naturalmente, la lingua di Montaigne) : « […] je trouve […] qu'il n'y a rien de barbare et de sauvage en cette nation, à ce qu'on m'en a rapporté, sinon que chacun appelle barbarie ce qui n'est pas de son usage ; comme de vray il semble que nous n'avons autre mire de la verité et de la raison que l'exemple et idée des opinions et usances du païs où nous sommes. » (3)

E quando vengono definiti cannibali, ovvero quando vengono indicati come popolazioni - si tratta dei Tupinambas - che, ritualmente, mangiano una o l'altra parte del corpo dei loro nemici morti, egli scrive :
« Je ne suis pas marry [fâché] que nous remarquons l'horreur barbaresque qu'il y a en une telle action, mais ouy bien dequoy [mais plutôt du fait que], jugeans bien de leurs fautes, nous soyons si aveuglez aux nostres. Je pense qu'il y a plus de barbarie à manger un homme vivant qu'à le manger mort, à deschirer, par tourmens et par geénes [supplices], un corps encore plein de sentiment, le faire rostir par le menu, le faire mordre et meurtrir aux chiens et aux pourceaux. » (4)
Perché ha visto agire così i cattolici e i protestanti che si fanno la guerra.

Ciò che Ginzburg vuole mettere in evidenza è che giudichiamo gli altri sulla base dei nostri pregiudizi. La distanza - geografica, temporale o culturale - ci porta ad adottare un punto di vista che ignora tutti gli altri punti di vista possibili. Abbiamo un solo punto di vista e rimane un punto di vista, ovvero una percezione specifica da un luogo, che ignora ciò che altri luoghi avrebbero potuto insegnarci. Un'idea apparentemente banale, si dirà. Tuttavia, quando ribaltiamo [retournons] questa logica contro noi stessi, quando immaginiamo di essere il bersaglio di uno o più punti di vista estranei al nostro, allora il metodo diventa molto più fruttuoso. Si tratta di cancellare il più possibile tutto ciò che ci rende prevedibili, normali ai nostri occhi, e di sforzarsi di vedersi strani, inaspettati, insoliti.

Carlo Ginzburg chiama questo metodo lo “straniamento”. Egli inventa una parola (da una parola russa, ma tralascerò questo aspetto dell'invenzione) che esprime la scelta di guardarsi con estraneità. Si tratta di snaturarsi, di non considerare più naturale ciò che l'abitudine ci porta a fare o a pensare, di defamiliarizzarsi, di rompere con quella disinvoltura che ci lega a ciò che ci è familiare, di delegittimarsi, di smettere di credere giustificati nelle proprie azioni e opinioni. Lo “straniamento” è un sostantivo che deriva dall'aggettivo strano, ma che è anche vicino a straniero, come se si trattasse di rendersi allo stesso tempo strani e stranieri a se stessi.

Ricordiamo: Ginzburg ha intitolato il suo libro Occhiacci di legno. Pinocchio è un burattino di legno magicamente portato in vita. Se si osserva, probabilmente non riesce a credere di essere ciò che è. Ciò equivale a capire che è qualcosa di diverso da ciò che si crede che sia, ma anche qualcosa di diverso da ciò che lui crede di essere.

Il libro di Ginzburg è stato tradotto in francese e pubblicato nel 2001 da Gallimard con il titolo À distance. Neuf essais sur le point de vue en histoire. La prima delle nove riflessioni, dei nove saggi, era intitolata nella versione originale “Lo straniamento”. Come tradurre straniamento in francese ? Il traduttore, Pierre-Antoine Fabre, alla fine ha scelto “estrangement”, una parola che si trova otto volte nei Saggi di Montaigne, ma nella sua forma avverbiale, non sostantivale. Questa parola sarà ripresa soprattutto dal secondo autore contemporaneo di cui vi parlerò, Bernard Sève.

Non conosco alcun articolo o libro di Bernard Sève in cui egli tratti esplicitamente di l’“estrangement”. In un libro pubblicato nel 2007 intitolato Montaigne. Des règles pour l’esprit (5), aveva sottolineato in particolare il fatto che Montaigne insistesse talvolta sulle virtù della consuetudine - virtù di stabilizzazione e pacificazione -, talvolta sull'aspetto accecante della consuetudine, sul dominio dell'abitudine.

Vorrei qui permettermi una piccola digressione, un po' estranea all’“estrangement” ; anche se... In questo meraviglioso libro che è Montaigne. Des règles pour l’esprit (Montaigne. Regole per la mente), Bernard Sève si sforza di dimostrare che gli Saggi - contrariamente a quanto talvolta si afferma - forniscono effettivamente delle risposte a questa domanda fondamentale : come funziona la mente umana ? Ciò che influenza il comportamento e le opinioni sono le consuetudini, il corpo e anche il rapporto con gli altri. Ciò che influenza sono come delle regole a cui bisogna sottostare. Ma sono quelle che Sève chiama regole suppletive, cioè regole che non sono primarie, che non sono immanente o trascendentale. Perché non esistono regole primarie, né dal punto di vista della ragione né dal punto di vista di qualche altro imperativo. In mancanza di queste regole, ci si affida ad altre molto meno assolute. E se a volte esiste una regola delle regole, è proprio quella che raccomanda di seguire la regola suppletiva.

Prendiamo l'esempio della consuetudine, poiché l'“estrangement” è legata ad essa. In “De la coustume et de ne changer aisément une loy reçeüe” (il capitolo 23 del Libro I) Montaigne inizia denunciando l'eccessiva forza della consuetudine - ricordo che per consuetudine si intendono abitudini, opinioni comuni, usi e costumi e altro ancora ; leggi, naturalmente, leggi scritte e redatte da un legislatore (come recita il titolo del capitolo) -, denuncia l'eccessiva forza della consuetudine perché il suo fondamento è debole o inesistente. « […] c’est à la vérité une violente et traistresse maistresse d’escole, que la coutume » (6) scrive Montaigne.

E poi, cambia rotta : le usanze esprimono la follia dello spirito umano, ma sarebbe un'altra follia voler esimersi da esse. Perché seguire le usanze locali, per quanto assurde e aberranti possano essere, significa almeno mettersi al riparo dalle “novità”, quelle altre regole che vengono definite migliori, ma che sono altrettanto assurde e aberranti di quelle che pretendono di sostituire.

Qualcuno potrebbe obiettare che Montaigne esclude in questo modo ciò che, a partire dal XVIII secolo, verrà definito universalismo, ovvero l'ambizione di immaginare regole superiori, universali, giustificabili in ogni luogo e in ogni tempo e compatibili con le regole locali, qualunque esse siano, regole i cui valori affermati sarebbero qualificati, ad esempio, come diritti umani. Si tratta di un altro dibattito in cui non entrerò oggi e che richiederebbe di affrontare la difficile questione del carattere progressista della filosofia. Perché queste regole superiori, universali, non sarebbero meno di violentes et traitresses maitresses d’école, come gli altri ? C'è un universalismo in Montaigne ; è fatto della condizione umana universale, della varietà universale degli esseri umani, uguali nella loro totale diversità. Per il resto, di fronte a ciò che crediamo testimoniare una verità generale, Montaigne esclama, cito : « [… ] c’est une loi municipalle que tu allègues, tu ne sais pas quelle est l’universelle. » (7)

La questione delle regole giuste rimarrebbe quindi senza soluzione. Sì, senza dubbio, tranne per il fatto che Montaigne ci offre un modo molto personale, molto singolare - in tutti i sensi del termine - per smascherare l'arbitrarietà delle consuetudini. E questo modo è l’“estrangement”, lo “straniamento”.

Chiudo la parentesi e torno così all'“estrangement”.

A proposito dell'“estrangement”, Bernard Sève ha tenuto due conferenze, facilmente reperibili su Internet : la prima il 28 marzo 2017 al liceo Voltaire di Orléans, intitolata L’étrange et l’étranger dans la pensée de Montaigne (durata : 56 minuti) e la seconda il 6 marzo 2020 per la Bibliothèque Nationale de France con il titolo L’estrangement (durata: 1 ora e 27 minuti).

Di tutto ciò che ci dice sull'“estrangement”, ricorderò tre cose.

La prima è una definizione semplice ed eloquente : praticare l’“estrangement”, lo “straniamento”, significa rendere strano ciò che non lo è ; e significa soprattutto farlo nei confronti di se stessi, nei confronti delle proprie abitudini, ovvero dei propri costumi, delle proprie opinioni, delle proprie inclinazioni, dei propri desideri, dei propri ragionamenti. Ciò può essere fatto nei confronti degli altri se condividiamo le abitudini che hanno acquisito, ma può essere praticato soprattutto nei confronti di noi stessi. Il metodo vale essenzialmente come esplorazione di noi stessi. Non lo definirei introspezione. Semplicemente una particolare attenzione a ciò che ci muove, spesso a nostra insaputa [insu]. In un certo senso, è un po' come prendere alla lettera la formula che Rimbaud usò in una lettera indirizzata a Paul Demeny nel maggio 1871: « Io è un altro. »

La seconda cosa è che è importante non usare questo metodo con l'obiettivo di giudicare ciò che viene reso strano. È sufficiente rendere strano, perché è questo che suscita le domande migliori. Bernard Sève ama citare questa frase di Montaigne :
« Ces exemples estrangers ne sont pas estranges, si nous considérons […] combien l’accoustumance hebete nos sens. » (8)
Montaigne ha imparato che alcuni popoli amano mangiare cavallette, formiche, lucertole o rospi. Ebbene, se accettiamo l'idea che le nostre abitudini ottundono i nostri sensi, che la nostra mente è ottusa dalle nostre consuetudini, allora dobbiamo ammettere che questi costumi in vigore presso i popoli stranieri non sono strani. E, ribaltando l'esercizio su noi stessi, sui nostri costumi, cerchiamo quindi il più spesso possibile di supporre strano ciò che, in partenza, non sembra esserlo. Non si tratta né di condannare le nostre abitudini né di approvarle. Si tratta semplicemente di prendere coscienza di ciò che esse devono alla nostra posizione spaziale e temporale. Non si tratta di cambiare punto di vista, ma di rendersi conto della molteplicità dei punti di vista possibili.

La terza cosa è che conoscere non significa riconoscere. Ciò che riconosciamo, non lo conosciamo più. Tutto ciò che ci circonda ci è talmente familiare che non lo vediamo più. Un oggetto, un luogo, una persona che frequentiamo abitualmente, li riconosciamo, cioè li identifichiamo come già conosciuti, quindi come cose che non è più necessario conoscere. È talmente meccanico che non ci rendiamo conto di aver smesso di guardarli come guardiamo tutto ciò che ci appare per la prima volta. Immaginiamo di scoprire questo oggetto, questo luogo, questa persona, al punto da trovarli strani, allora li vedremo con occhi nuovi, meno soggetti ai nostri preconcetti. Questa stranezza artificiale forse ci porterà a dissolvere la nostra parzialità.

Et voilà. Spero di avervi invogliato a leggere Carlo Ginzburg. E spero di aver attirato la vostra attenzione su questo consiglio che viene da Montaigne e che è stato riformulato da Carlo Ginzburg e Bernard Sève : l'indipendenza di spirito inizia con un distacco da sé stessi ; prima ancora di denunciare le convinzioni degli altri, è importante mettere sotto processo le nostre stesse convinzioni. È utile, molto utile, praticare lo “straniamento”, ovvero l'“estrangement”.

(*) Questa nota riproduce una presentazione tenuta l'8 novembre 2025 durante un corso di italiano presso la Dante-Liège.
(1) Egli parla tuttavia della metafora leibniziana della prospettiva quando evoca la corrispondenza tra Cartesio e la principessa Elisabetta (Carlo Ginzburg, À distance. Neuf essais sur le point de vue en histoire, trad. di Pierre-Antoine Fabre, Gallimard, Bibliothèque des histoires, 2001, p. 160).
(2) Gottfried Wilhelm Leibniz, Discours de métaphysique suivi de Monadologie, Gallimard, Tel, 1995, p. 106.
(3) Montaigne, Les Essais, PUF, Quadrige, 2013, p. 205.
(4) Montaigne, Op. cit.., p. 209.
(5) Bernard Sève, Montaigne. Des règles pour l’esprit, PUF, 2007.
(6) Montaigne, Op. cit., p. 109.
(7) Montaigne, Op. cit., p. 524.
(8) Montaigne, Op. cit., p. 109.