Sangue giusto
di Francesca Melandri (*)
L'autrice di cui vorrei parlare, perché ho letto uno dei suoi libri, è Francesca Melandri. È nata a Roma nel 1964. Delle sue origini conosco ben poco, se non che sua sorella Giovanna è una donna politica, più volte ministro nei governi D'Alema, Amato e Prodi. Francesca Melandri esordisce come sceneggiatrice di cinema e TV. Nel 2010 ha pubblicato il suo primo romanzo, Eva dorme, e nel 2012, il secondo, Più alto del mare. Il libro di cui sto per parlare è il suo terzo libro, Sangue giusto, pubblicato nel 2017 (1).
Non so se vi è mai successo, ma io, quando leggo un libro che mi costringe a guardare il mondo in modo diverso da come lo vedevo fino ad allora, che costringe la mia mente a pensare al mondo in modo nuovo da come pensavo fosse - come quando ho letto per la prima volta La commedia umana di Balzac o La montagna magica di Thomas Mann o Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Márquez (e molti altri) -, sono così sconvolto e colpito che i miei cari mi chiedono se sto bene, cosa sto patendo.
Questo è quello che mi è successo quando ho letto Sangue giusto di Francesca Melandri. In realtà, quando ho chiuso il libro, non potevo più guardare l'Italia allo stesso modo, perché quello che avevo scoperto, insieme al personaggio di Ilaria Profeti, ha sconvolto la mia ingenuità. Infatti, Ilaria, a forza di cercare di sapere, ci svela poco a poco cos'è la famiglia Profeti, ma anche cos’è l'Italia, da dove viene, di che pasta è fatta. E, soprattutto, attraverso l'Italia, cos'è il mondo, cos'è la natura umana, cos'è la vita e cos'è la morte.
È la storia che ci apre gli occhi. Non la grande, ma la piccola storia. E quando dico la piccola non mi riferisco a quella che mostra la quotidianità, ma a quella che si unisce alla grande, senza farne parte. In questo caso, la storia di Attilio Profeti, il padre di Ilaria, protagonista principale del libro. Attilio è bello, è forte, è intelligente e soprattutto è fortunato, fortunato fino all'impudenza, al punto da credere che un giorno moriranno tutti, tranne lui. Ma non importa quanto siamo fortunati, non sfuggiamo ai nostri tempi. Era nato nel 1915 e quindi era ancora un bambino quando il fascismo si impadronì dell’Italia. Nonostante la sua forza, la sua fortuna, la sua intelligenza, la sua astuzia, sono gli eventi che lo porteranno dove la sua vita sarà forgiata. Ad esempio in Abissinia, nel 1935, una camicia nera in dosso, sulle orme del generale Rodolfo Graziani e dei suoi delitti. Ed è la sua stessa storia che lo porterà a ritornare in Etiopia nel 1985 per far uscire di prigione il figlio, frutto dell’unione con una donna del luogo.
Da questo si capisce che non ha proprio scelto di sposare Marella, la quale gli darà tre figli, Federico, Emilio e Ilaria, né di vivere contemporaneamente come se fosse sposato con Anita, con la quale avrà un figlio di nome Attilio, proprio come lui. Tutto questo nel segreto, nella dissimulazione, nella menzogna, per di più sballottato dal corso delle cose, come se il sentimento di fare delle scelte non avesse altra ragione d'essere che alimentare l'illusione di esistere.
Se Ilaria cerca di capire, e di capire in particolare chi è veramente suo padre, è perché un giovane, nero come chi viene dell'Africa subsahariana, l'aspetta un bel giorno davanti alla sua porta e gli annuncia che lei è sua zia. È possibile ? È vero ? Come crederci ? Forse esplorando le zone grigie di cui è disseminata la vita di suo padre. Un primo segreto era già stato svelato molto tempo fa. Quel giorno aveva osato chiedere ad Attilio Profeti se avesse un’amante ; e lui aveva risposto : « “Vedi, stellina...” […] “Voi non siete in tre ma siete...” […] “ ...in quattro” » (p. 221-222). Lei ancora non lo sapeva, in effetti erano in cinque.
Ciò che il libro mette in luce - e non solo grazie alla curiosità preoccupata di Ilaria - è l'itinerario di un uomo che si snoda costantemente tra i capricci della vita e della storia : il colonialismo di guerra, con l’uso di gas mostarda, le teorie apparentemente scientifiche dell'antropologo Lidio Cipriani sulle razze inferiori, i circoli profittatori di Roma, i palazzinari, le tangenti, i privilegi, il disagio degli emigranti che si nascondono a Roma nell'Esquilino, il lungo tragico viaggio dei profughi, l'ipocrisia e la nostalgia degli ex fascisti. E poi, soprattutto, c'è questa difficoltà a dare un giudizio morale sui compromessi che la vita obbliga tutti a fare quando due linee di azione si oppongono.
Ilaria, lei, è di sinistra, preoccupata per la disuguaglianza, ansiosa di fare bene, di comportarsi bene, di evitare ogni partecipazione alla turpitudine umana. Ma niente è semplice. È sessualmente felice con un deputato berlusconiano a cui non vuole dovere nulla, tranne la vertigine dei sensi. Ma se avesse il potere di far uscire suo nipote da un Centro di identificazione ed espulsione, lei si spingerebbe fino a chiedergli di intervenire ?
A questo punto, ci sono due cose da dire : una sullo stile narrativo di Francesca Melandri ; l'altra sulla mia capacità di leggere, scrivere e parlare italiano.
Per quanto riguarda la prima, Francesca Melandri, forse per via delle sue esperienze di sceneggiatrice, conduce la sua storia in modo molto disarticolato, moltiplicando salti in avanti e indietro, cambi di tempo e di luogo, alternando senza sosta i personaggi che si susseguono, cospargendo la narrazione di fatti enigmatici la cui soluzione emerge venti, cinquanta o duecento pagine dopo. Anche il gran numero di personaggi, compresi quelli legati a una famiglia complessa di per sé, richiede un'attenzione costante. Il metodo è, tuttavia, molto giudizioso, perché esso stesso è metafora dell’apparente incoerenza della vita e della difficoltà a riconoscerne il significato. E poi, è anche grazie allo sforzo di comprendere l'itinerario di ciascuno che le sorprese che ci riservano le ultime pagine del libro assumono una dimensione straordinaria.
Per quanto riguarda la seconda cosa devo fare una confessione. Quando leggo un libro in italiano, applico un modo di fare ben preciso, che si basa fondamentalmente sul non fermarsi a una parola fraintesa e continuare senza interruzione. Sì, ma ecco che, quando la storia si fa più complessa nell’avanzare delle pagine, arriva il momento in cui siamo travolti dalla sensazione di non capire più nulla e in cui attribuiamo questa incomprensione proprio alle parole saltate. Arrivato faticosamente alla fine del capitolo 9, consapevole di leggere un capolavoro che mi sfuggiva,… ho comprato la versione francese : Tous, sauf moi (2). E ho ricominciato nella mia lingua madre, certamente un po' vergognoso, ma sollevato di mettere finalmente insieme il puzzle. Imparare una lingua che l'infanzia non ha inscritto nel nostro corpo significa prima di tutto darsi la possibilità di cavarsela quotidianamente tra i suoi fruitori. E questo è già molto. Ma non è possederla, né soprattutto esserne posseduto. Questo è molto difficile che accada. E magari va bene così, perché capirsi troppo in fretta e troppo bene impoverirebbe, chissà, gli scambi.
Quando Francesca Melandri parla degli emigranti, c'è qualcosa che merita di essere capito e che va ben oltre il principio della solidarietà. Cito :
« Immagina questo : stai facendo un sogno meraviglioso mentre sei appollaiato sui rami di un albero. Devi svegliarti ogni minuto, però. Perché non devi cadere e anche perché vuoi tenere vivo il tuo sogno. Questo vuol dire emigrare. » (p. 37)
O ancora :
« Migrare è un gesto totale ma anche molto semplice : quando un vivente in un posto non può sopravvivere, o muore o se ne va. Umani, tonni, cigogne, gnu al galoppo nella savana : le migrazioni sono come le maree, i venti, le orbite dei pianeti e il parto, tutti fenomeni che non è dato fermare. Certo non con la violenza, seppure sia diffusa questa illusione. » (pp. 41-42)
Un altro spunto di riflessione è fornito quando Francesca Melandri parla di razzismo, non soltanto per denunciarlo, ma anche per temerlo in noi stessi. Come quando Ilaria si accorge di avere più difficoltà ad accettare come fratello colui che aveva la pelle del colore del legno vecchio rispetto a quando aveva dovuto accettare come tale il figlio di Anita. Cito :
« “Razzista !” si dice Ilaria con esaltata amarezza da insonne. Ma subito si rende conto di come questa parola sia inadeguata a descrivere i sentimenti complessi che le impediscono di dormire. Una scorciatoia. Una parola-discarica, dentro la quale si può buttare ogni ambivalenza, ogni istinto primario di differenziazione, ogni identità fragile, risparmiandosi così il compito, quello sì ostico, di portarli alla coscienza. Confusamente, pur con i pensieri resi scuri e vischiosi dall’ora del lupo, Ilaria capisce quale sia la vera domanda che le impone la presenza del ragazzo. Che poi è la stessa che si nasconde, inespressa e negata, dietro la maggior parte di ciò che etichettiamo come razzismo. Ovvero non la domanda : “Chi sei tu ?” bensì : “Chi sono io ?” » (pp. 86-87)
O ancora questo passaggio, che riflette il parere dell'avvocato a cui Ilaria chiede di liberare il suo nipote dal Centro di identificazione ed espulsione :
« Il razzismo, ormai l’ha capito, è solo gioco di specchi, illusione. È il modo più efficace mai inventato per stroncare la lotta contro le ineguaglianze - la lotta di classe, un tempo si chiamava. Serve a istigare i penultimi a sentirsi superiori agli ultimi, per impedire che si ribellino insieme contro i primi. In America gli ex schiavi li linciavano i bianchi poveri, per dire, mica i padroni delle piantagioni. E nell’Italia del nuovo millennio, il trucco è lo stesso : convinci i disoccupati che il posto di lavoro non gliel’hanno rubato gli speculatori bensì gli immigrati e olà : quelli andranno a menare braccianti al nero, invece di farti la rivoluzione. E intanto il mercato agroalimentare italiano può mantenere prezzi bassi e concorrenziali. Due piccioni con una sola fava nera. » (p. 455-456)
Il libro di Francesca Melandri è uno di quelli che spinge il lettore a mettere in discussione tutto ciò che crede di dovere alla sua propria lucidità. Ho da tempo la sensazione che il modo in cui si è evoluta la mia concezione del mondo corrisponda a un progressivo abbandono degli errori, delle illusioni, dei pregiudizi, dell'ingenuità. La storia di Attilio Profeti e il modo in cui viene raccontata scuotono tutto questo e rafforzano la mia idea che, se evolviamo, è tutt'altro che certo che sia in una direzione che possiamo qualificare come positiva, nel senso che vada dall'ignoranza verso la conoscenza. Rimane solo questa certezza che, come diceva Blaise Pascal, gli esseri umani oscillano tra grandezza e miseria, o per dirla in altro modo, tra gentilezza e crudeltà, tra amore e odio. E, a differenza di Pascal, non posso credere che Gesù risolva questa ambivalenza.
(*) Questo post è servito come base per una piccola presentazione. Ringrazio Alessia Colurcio per i suoi preziosi consigli su come formulare le cose in italiano.
(1) Francesca Melandri, Sangue giusto [2017], Mondadori Libri, Milano, terza edizione, 2020.
(2) Francesca Melandri, Tous, sauf moi, trad. de Danièle Valin, Gallimard, Folio, 2019.
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