Quando ti esprimi in una lingua che conosci poco, è preferibile parlare di un argomento per il quale hai un vivo interesse. Ciò aiuta a fornire lo sforzo necessario per far fluire i propri pensieri in parole scarsamente controllate. Ecco perché, mentre sono impegnato a riflettere sullo spirito dell'Illuminismo del 18° secolo, ho deciso di evocare Cesare Beccaria, un autore italiano di questo periodo che, spero di convincervi, ha avuto un profondo impatto sul progresso successivo legati ai diritti dei cittadini dei paesi democratici.
Due parole innanzitutto sul mio interesse per l’Illuminismo. Viviamo in tempi preoccupanti sotto molti aspetti. Personalmente, una delle mie maggiori preoccupazioni è l’impero sempre crescente di pensieri e modi di pensare irrazionali. Siamo arrivati a credere a tutto e al suo contrario, dalle teorie più inverosimili e prive di prove alle utopie politiche più inette, compresi i rimedi pseudomedici più folli. L’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti lo conferma. Questo declino della razionalità ha accompagnato una revisione dell’orizzonte precedente della nostra cultura e in particolare dell’Illuminismo. Per quasi 100 anni, filosofi e storici riconosciuti hanno difeso l’idea che gli eccessi totalitari del 20° secolo – comunismo, fascismo e nazismo – devono qualcosa ai filosofi del 18° secolo. La ragione veniva designata come fonte dell'errore e la verità considerata trascurabile di fronte alle esigenze dell'azione. Penso ad autori come Max Horkheimer, Theodor Adorno, Martin Heidegger, Gilles Deleuze, Michel Foucault, Jacques Derrida. Sono fortemente in disaccordo con questo modo di vedere. Se questi dibattiti vi interessano e se avete tempo, vi invito a leggere le due note sull'argomento che ho inserito nel mio blog. (1) Se lo fate, non ditemi che non è divertente : lo so. Non dirò altro a riguardo oggi.
Mettiamolo al suo posto ! Vediamo di chi si tratta. Nacque a Milano nel 1738 dal marchese Giovanni Saverio e da Maria Visconti di Saliceto. Egli Lui stesso portava il titolo di marchese di Gualdrasco e Villareggio, due piccoli feudi situati tra Milano e Pavia. Suo padre discendeva da un ramo di illustre famiglia pavese, che aveva ottenuto il titolo marchionale nel 1712. Dal 1747, secondo le sue stesse parole, subì « otto anni di educazione fanatica e servile » in una scuola gesuita per giovani aristocratici a Parma. Nel 1758, all'età di 20 anni, conseguì il dottorato in legge presso l'Università di Pavia.
Per comprendere appieno cosa lo portò a pubblicare l'opera che lo avrebbe reso famoso - Dei delitti e delle pene (2) - nel 1764, è secondo me essenziale guardare a due eventi molto diversi tra loro : da un lato, un episodio politico molto importante nel Ducato di Milano ; dall'altro, un episodio molto personale, una storia d'amore inaspettata con conseguenze di vasta portata. Questi eventi si svolsero in un breve arco di tempo, essenzialmente dal 1760 al 1764. (3)
Beccaria aveva 2 anni quando il titolo di duchessa di Milano passò a Maria Teresa d’Austria. Maria Teresa non era una persona qualunque. Se la storia offre molti ritratti di donne che hanno superato il giogo maschile per affermare il proprio punto di vista, lei occupa certamente uno dei primi posti in questa galleria. Ciò non le impedì di alimentare i pregiudizi del suo tempo, in particolare quelli cattolicissimi contro ebrei e protestanti, che aveva espulso. Si trovò anche coinvolta nella Guerra dei Sette Anni, il primo grande conflitto mondiale, che si concluse con la vittoria di Gran Bretagna e Prussia e la sconfitta di Francia e Austria. Ma ciò che ci interessa è il gusto che dimostrò - soprattutto sotto l'influenza del suo cancelliere, il principe Kaunitz - per le nuove idee, partecipando così a quello che Mme de Stael chiamava dispotismo illuminato.
Tuttavia, a partire dal 1760, fu la Lombardia a diventare il luogo di profonde riforme istituzionali, ispirate in parte dalla filosofia dell’Illuminismo. Un nuovo ministro plenipotenziario, il conte Carlo Giuseppe di Firmian, originario di Trento, giunse a Milano nel 1759, mentre il veneziano Luigi Giusti ricoprì la carica di referente e segretario del Dipartimento d'Italia. Furono soprattutto questi due rappresentanti austriaci a pianificare le grandi riforme. Ma chi si oppose a queste riforme ? Gli aristocratici milanesi che volevano conservare i loro privilegi, in particolare i padri di coloro che, per reazione, avrebbero formato il circolo degli illuministi italiani, la cosiddetta Accademia dei Pugni. Tornerò più avanti su questa Accademia dei Pugni.
Innanzitutto, sposò Teresa e presto ebbe una figlia che chiamò Giulia, senza dubbio in riferimento all'eroina di La Nouvelle Heloïse di Jean-Jacques Rousseau, che aveva appena letto. (Una breve parentesi : Giulia sposò il conte Pietro Manzoni e nel 1785 diede alla luce un figlio, nientemeno che il romanziere Alessandro Manzoni, autore dei Promessi sposi, di cui ho parlato qui l’anno scorso.)
Cesare Beccaria iniziò quindi a leggere gli scrittori francesi del secolo, a partire da Montesquieu, ma anche Helvétius, Voltaire, Rousseau, Diderot, D'Alembert e altri. Inoltre, entrò in contatto con giovani della sua età, anch'essi attratti dall'Illuminismo francese. Tra questi, Pietro Verri ebbe un ruolo fondamentale nella creazione di un gruppo di amici che pubblicò una rivista chiamata “Il Caffè” e che divenne noto come “Accademia dei pugni”, pugni perché avevano la reputazione di discutere in modo molto aspro. Pietro Verri, come Beccaria, ruppe con il padre, il conte Gabriele Verri, che era uno dei più virulenti difensori dei privilegi tradizionali dell'aristocrazia milanese. Pietro coinvolse nella sua ribellione i fratelli Alessandro, Carlo e Giovanni (un’altra parentesi : quest'ultimo, Giovanni, noto soprattutto come libertino, era il padre biologico di Alessandro Manzoni).
Cosa troviamo nel libro di Beccaria, Dei delitti e delle pene ? Mi limiterò alle due idee che mi sembrano più importanti, senza cercare di essere completo. Chiunque voglia saperne di più potrà trarre beneficio dalla lettura del libro.
Beccaria riteneva che il sovrano - sovrano era la parola usata all'epoca per designare il potere, qualunque fosse la sua forma - avesse solo quella parte di libertà che ogni cittadino gli cedeva per il bene di tutti, e che la libertà del cittadino fosse quindi quasi totale, ad eccezione di quella che veniva così concessa al sovrano (un'idea ispirata dal filosofo inglese John Locke). Però, ciò che viene ceduto al sovrano deve essere utile per il bene di tutti, cosa che non avviene quando, ad esempio, si ricorre alla crudeltà - si riferisce qui alle torture e ai maltrattamenti comunemente praticati su imputati e colpevoli. Ecco un breve estratto per sentirlo parlare :
« A misura che i supplicii [‘supplicii’ in italiano del 18° significa ‘tormenti'] diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello colli oggetti che gli circondano, s'incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent'anni di crudeli suppliciii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico. » (4)Questo ragionamento è ovviamente un po' semplicistico. Senza dubbio deve molto all'uso di crudeltà estreme da parte delle autorità dell'epoca, che vi ricorrevano costantemente e senza particolare discernimento. Ciò che è importante ricordare è la preoccupazione di rendere la pena proporzionata al reato, e quindi di porre fine all'arbitrarietà che molto spesso prevale anche quando si pretende di fare giustizia.
È questo spirito che porta Beccaria a porsi ulteriori domande. Lo leggo ancora :
« Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili ? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno ; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo ? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i ben, la vita ? » (5)È quindi lo stesso ragionamento che lo porta a proporre l'abolizione della pena di morte. Naturalmente, nel suo libro sviluppa molti altri argomenti. Mi sono permesso di insistere su questo perché illustra perfettamente la preoccupazione di concordare pene calibrate sulla gravità e sulla dannosità dei reati, preoccupazione che ritroveremo nella seconda idea che propongo di discutere.
Si tratta della concezione di Cesare Beccaria sull'applicazione della legge da parte del giudice, in altre parole su come la legge dovrebbe essere interpretata quando si tratta di sentenze. Lasciate che vi legga un paragrafo notevole :
« In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto : la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza. » (6)Cesare Beccaria voleva che il giudice si astenesse dall'interpretare la norma. Se lo fa, apre la possibilità di trattare in modo diverso persone che hanno commesso lo stesso reato. E, aggiunge, se la norma deve essere semplificata in qualche modo per facilitare la decisione, non sarà un compito molto complicato. In effetti, questa proposta, che in ultima analisi è abbastanza logica per coloro che vedono costantemente sentenze emesse in modo arbitrario, soprattutto in base alla qualità del contendente, darà luogo a discussioni giuridiche che continueranno ad appassionare gli operatori del settore fino ad oggi. Perché si tratta di un dilemma molto controverso : giudicare secondo la lettera della legge o secondo lo spirito che ne ha guidato l’adozione ? Oggi è in corso un vivace dibattito tra i sostenitori del cosiddetto principio di proporzionalità - un principio di cui i giudici delle corti superiori amano parlare - e gli oppositori di questo tipo di interpretazione, che si trovano generalmente tra i giudici delle corti inferiori. I primi si arrogano il diritto di non applicare una norma, come una legge, perché non è proporzionata a un principio superiore, che ovviamente richiede poteri interpretativi molto ampi. I secondi sottolineano l'incertezza giuridica che questa latitudine creerebbe ; alcuni arrivano cosi a denunciare un governo di giudici.
Ci piace pensare che usare la ragione sia qualcosa di facile, che permetta di avere ragione. Ma è vero il contrario. Perché la ragione non ha contenuto. Al massimo, è un modo di usare la mente per evitare false catene di cause ed effetti, per valutare ciò che è plausibile, per ordinare le ipotesi. E questo è tutt'altro che facile.
Perché parliamo del 18° secolo come il secolo della ragione, come il secolo dell’Illuminismo ? Cosa è successo in quel secolo per fargli meritare questo nome ? La ricerca della verità, in qualsiasi campo, richiede un metodo. Il 17° secolo - con Bacone, Cartesio e Galileo - ha visto l'emergere della scienza moderna, quella che è stata conosciuta come razionalismo quantitativo. È stata applicata alla comprensione della natura, naturalmente, ma ha anche influenzato ricerche per le quali la matematica era di scarso aiuto. In filosofia, per esempio, fu necessario guardare le cose in modo diverso, anche se la scienza suggerisce di essere il più vigili possibile contro gli errori. Il 17° secolo è stato il secolo dei grandi sistemi deduttivi : Hobbes, Cartesio, Malbranche, Spinoza, Leibniz. Il 18° sarà il secolo del metodo induttivo : partire dai dettagli e generalizzare dove possibile. Tutti diventarono cauti prima di affermare qualcosa, perché si scoprì quante possibilità c'erano di sbagliare. Nel campo delle opinioni, in particolare di quelle filosofiche o politiche, la ragione può essere usata per filtrare le buone e rifiutare le cattive. Mi concentrerò su un solo esempio per farvi capire di cosa sto parlando.
Prendo l'esempio di uno storico italiano contemporaneo, un grande storico: Carlo Ginzburg, l'iniziatore di una grande tendenza della ricerca storica chiamata microstoria. È il figlio della grande scrittrice italiana Natalia Ginzburg.
Nel 1998, Carlo Ginzburg ha pubblicato un libro intitolato Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (7). Gli occhi grandi di legno sono gli occhi di Pinocchio, quello che non riesce a vedersi senza dirsi che non è chi pensa di essere. In questo libro, troviamo una nuova parola che egli ha in un certo senso inventato, almeno nel senso che le dà : è la parola « straniamento » (8). Significa distanza, ma non una distanza qualsiasi. In realtà, Ginzburg traduce una parola francese molto antica che si trova in Montaigne : l’« estrangement ». Di cosa si tratta ?
« Ces exemples estrangers ne sont pas estranges » (9) [« Questi esempi stranieri non sono strani »] scrive Montaigne dopo aver elencato alcune stranezze esotiche. Ciò che ci sembra strano è solo ciò che è diverso dalle nostre abitudini e dai nostri costumi. È sforzandoci di vedere le nostre abitudini e i nostri costumi come strani che ci renderemo conto che questi usi e costumi stranieri non sono affatto strani. Dobbiamo diventare estranei a noi stessi per capire che gli altri, per quanto lontani, non sono così strani come potremmo inizialmente pensare. L'« estrangement », lo « straniamento », è il processo attraverso il quale la percezione viene sottratta all'automatismo dell'abitudine. La percezione non è solo l'apprensione dei fatti, ma comprende anche i giudizi a cui questi fatti sono abitualmente soggetti. Relativizzare questi giudizi fino a renderli strani è il modo per ripristinare l'integrità dei fatti, il modo per defamiliarizzare con ciò che normalmente consideriamo accettabile. È così che Montaigne, parlando dei cannibali incontrati su una banchina francese, giunge a scrivere : « Nous les pouvons donc bien appeller barbares, eu esgard aux regles de la raison, mais non pas eu esgard à nous, qui les surpassons en toute sorte de barbarie » (10) [« Possiamo ben chiamarli barbari, se consideriamo le regole della ragione, ma non se consideriamo noi stessi, che li superiamo in ogni genere di barbarie »].
Per Montaigne, l’« estrangement » è innanzitutto un tentativo di denunciare l'arbitrarietà del potere dominante, un tentativo di rendere giustizia a coloro che non hanno diritto di parola (animali, donne, cannibali) e che quindi non possono opporsi ai giudizi che legittimano il potere con i propri giudizi. È soprattutto un modo per lasciarsi andare, per concentrare le nostre facoltà critiche su noi stessi, per cercare le fonti della nostra cecità in noi stessi prima di cercarle negli altri.
È quello che fece Cesare Beccaria quando rifiutò i privilegi di cui avrebbe potuto beneficiare. È anche quello che hanno fatto i filosofi dell'Illuminismo quando hanno lottato duramente contro i pregiudizi inscritti nelle loro menti, nella speranza di raggiungere verità che non fossero più quelle di qui o di là, ma verità universali, anche in termini di valori. L'universalismo - oggi tanto criticato, soprattutto quando viene confuso con la globalizzazione - è spesso mal definito. Non è l'opposto del relativismo. Non è l'idea che la realtà costituisca un tutto. È uno sforzo per guardare le cose senza pregiudizi e, soprattutto, senza lasciarsi guidare da dogmi, credenze, ideologie, dottrine e opinioni di cui la nostra storia personale ci ha riempito il cervello. A livello etico, cerca valori che siano applicabili nella loro concezione all'intera umanità.
Per questo motivo - ma sto dando un'opinione personale che capisco possa non essere condivisa - penso che il primo nemico dell'indipendenza della mente sia la militanza. Il militante non può praticare lo “straniamento”, l’« estrangement ». Non può liberarsi dei paraocchi perché sono ciò per cui vuole lottare. Né può impedirsi di considerare strane le opinioni dei suoi avversari, perché li sta combattendo. Il militante, qualunque sia la causa che sta servendo, rifiuta implicitamente di fare un passo indietro e di mettere alla prova le proprie convinzioni. Il militante è una calamità per l'umanità.
(1) Ecco gli indirizzi da seguire : https://jeanjadin.blogspot.com/2024/10/note-dopinion-les-lumieres-12.html e https://jeanjadin.blogspot.com/2024/11/note-dopinion-les-lumieres-22.html.
(2) Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018.
(3) Per saperne di più sulla vita di Cesare Beccaria e sul clima politico in cui si esprimeva, si veda Philippe Audegean e Gianni Francioni, ‘Des délits et des peines’ de Cesare Beccaria, ENS Éditions, Lyon, 2009.
(4) Cesare Beccaria, Op. cit., p. 89.
(5) Ibid., p. 90-91.
(7) Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, 1998 (in francese : Carlo Ginzburg, À distance. Neuf essais sur le point de vue en histoire, trad. di Pierre Antoine Fabre, Gallimard, 2001).
(8) Per un'analisi dettagliata di questo concetto, si veda l’articolo di Silvia Giocanti, “L’art sceptique de l’estrangement dans les Essais de Montaigne », in la rivista Essais, Hors-série 1, 2013, 19-35.
(9) Montaigne, Les Essais, Gallimard, Bibliothèque de La Pléiade, 2007, p. 111. Per un'analisi pertinente delle parole di Montaigne, si veda la conferenza di Bernard Sève dal titolo L'étrange et l'étranger dans la pensée de Montaigne presentata il 28 marzo 2017 al ‘Rendez-vous philosophiques Orléans-Tours’ e visibile al seguente indirizzo internet : https://youtube.com/watch?v=w4cyRZY5iT0.
(10) Montaigne, Op. cit., p. 216.
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